A sessant’anni dalla sua pubblicazione Il giardino dei Finzi-Contini di Giorgio Bassani (1962) è divenuto un luogo della memoria non solo dell’ebraismo italiano, ma dell’Italia del Novecento. Nell’esperienza e immaginazione di Bassani, la Ferrara del suo romanzo più noto è, tuttavia, non solo la patria degli antenati e familiare, ma un microcosmo in cui osservare – con occhio da antropologo e da psicologo sociale (altri direbbero, semplicemente, da scrittore) – la condizione umana e le vicissitudini della storia che, nella sua narrativa, sono spesso concentrate nel ventennio fascista.

Sul filo della memoria prendono forma i comportamenti quotidiani, gli intrecci familiari, le vicende sentimentali, il dispiegarsi degli affetti individuali e collettivi di una piccola ma emblematica città, vista in una fase tra le più travagliate della sua storia: quella appunto del totalitarismo fascista e poi della guerra, con alla fine il baratro dell’Olocausto.

PER BASSANI il periodo del fascismo è sia lo sfondo delle vicende che egli intende narrare, sia una situazione e condizione storica che lo scrittore vuole indagare rispetto a come egli stesso le ha personalmente vissute. Sulla propria immersione o partecipazione di giovane studente al fascismo Bassani è, nella sua narrativa, dapprima indiretto, poi gradualmente sempre più esplicito fino a dire in proposito «io» nel Giardino dei Finzi-Contini. La critica ha stabilito, non sorprendentemente – trattandosi di un vissuto comune alla gioventù del periodo – che in effetti alcune esperienze del protagonista del Giardino furono proprie dello stesso scrittore: come la sua affiliazione al Guf e la partecipazione ai Littoriali. Oppure la precoce iscrizione al fascio e un certo filofascismo del padre, simili del resto a quelli di molti ebrei italiani in quella fase storica.

Negli ultimi anni in particolare Domenico Scarpa ha inoltre riesumato alcuni articoli e alcuni versi dimenticati di Bassani, che inevitabilmente recano traccia dell’atmosfera e della retorica del periodo in cui furono pubblicati, nella seconda metà degli anni Trenta, al culmine del consenso della società italiana per le sorti «imperiali» del fascismo. Si tratta di brevi articoli di cronaca dei Littoriali firmati da Bassani nel Corriere Padano (1937); di un saggio storico su un esploratore in una rivista coloniale (1938); di due componimenti in versi dello stesso periodo: Lamento per il milite morto e Timore di sentinella in Africa. Questi scritti appartengono – ha scritto in modo incisivo lo stesso Scarpa – «al pre-antifascismo di Giorgio Bassani». La sua esplicita scelta di opposizione al regime verrà certo rafforzata, di lì a poco, dall’introduzione delle leggi razziali. Più tardi, nella tarda primavera del 1943, Giorgio finirà in carcere per il suo impegno nella cospirazione politica.

Negli anni Cinquanta Bassani si concentrò quindi sulla rappresentazione letteraria del fascismo, esplorata spesso attraverso uno sguardo straniante e obliquo. Nelle Cinque storie ferraresi (1956), quelli dell’antifascista Clelia Trotti e del ciabattino Cesare Rovigatti, oppure dell’ex deportato Geo Josz; negli Occhiali d’oro (1958) la prospettiva del medico omosessuale Athos Fadigati.

QUESTA INDAGINE LETTERARIA e memorialistica di Bassani prolunga o fa riemergere la sensibilità «dell’immediato dopoguerra», un «tempo» – scrive Bassani nella sua raccolta di racconti – «così propizio alle questioni morali e agli esami di coscienza privati e collettivi». In effetti, «esame di coscienza» è espressione frequente nel dibattito degli intellettuali italiani sul fascismo nel dopoguerra, sebbene questo esame fu spesso parziale e indiretto per molti di essi.

NEL RACCONTO Clelia Trotti Bassani rappresenta così un noto ex deputato socialista come immerso anch’egli, durante il Ventennio, nella «grinta melensa e crudele del gregge conformista che occupava arrogante le strade, i caffè, i cinema, le sale da ballo, i campi sportivi, le botteghe di barbiere, perfino le case di tolleranza, escludendone d’imperio chiunque fosse o sembrasse diverso». E lo scrittore o, meglio, il suo alter-ego Bruno Lattes conclude: «La verità era che nemmeno l’onorevole Bottecchiari ce l’aveva fatta a passare senza danno, senza corrompere il suo carattere (…) sotto il torchio di quei decenni, dal ’15 al ’39, che avevano veduto, a Ferrara come dappertutto in Italia, la degenerazione di ogni valore». Bassani descrive dunque l’insinuarsi del morbo fascista (per parafrasare Benedetto Croce, a lui sempre caro) – il conformismo del gregge – in tutti gli ambiti della società cittadina e allo stesso tempo li indica come luoghi di inattesa ma subitanea esclusione del «diverso» da parte del fascismo divenuto regime: antifascisti, omosessuali (Fadigati negli Occhiali d’oro), infine ebrei.

Questo è anche il destino della grande famiglia protagonista del romanzo Il giardino dei Finzi-Contini, cioè il suo dramma dall’ascesa ai confini dell’aristocrazia cittadina, fino al declino nell’esclusione e alla morte. Esclusione che fa del loro magnifico giardino e della sontuosa dimora familiare un nuovo, paradossale «ghetto» e poi una sorta di monumentale tomba, da cui i Finzi Contini saranno infine trasferiti, nell’autunno-inverno del 1943, in un campo di sterminio.

MA UNO DEI LASCITI più straordinari del Giardino dei Finzi-Contini è, più in generale, la rappresentazione storica e simbolica delle dinamiche tra maggioranza e minoranza: il problema dei perimetri, dei muri e dei confini, della inclusione e dell’esclusione – dentro e fuori le mura di Ferrara, dentro e fuori il giardino. Della dialettica, quindi, tra integrazione ed esclusione fino all’espulsione. Nel suo maggior romanzo Bassani delinea infatti le geografie e geometrie variabili dello stare in gruppo, il desiderio di integrarsi fino al conformismo e alla rinuncia della libertà; le loro conseguenze ultime fino all’eradicazione e alla morte. Queste dinamiche riguardano potenzialmente tutti nella storia: ebrei italiani, italiani in genere, uomini e donne.