Gli sviluppi in Cisgiordania e a Gerusalemme Est sono al centro delle cronache dei media locali e delle analisi di esperti e commentatori. Un po’ tutti cercano di capire in che modo potrà evolvere la fase armata che caratterizza lo scontro tra l’esercito israeliano e le organizzazioni palestinesi nei Territori occupati al quale assistiamo da mesi e in particolare nelle ultime settimane. Su questo tema abbiamo intervistato Lubna Masarwa, analista e caporedattrice per Israele e Palestina del giornale online Middle East Eye.

 

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È la domanda che si pongono tutti. Stiamo assistendo allo sviluppo, giorno dopo giorno, di una Intifada palestinese armata?

Spesso in queste fasi si è parlato di Intifada e sono stata sempre cauta nel sostenere questa possibilità. Questa volta però credo che sia cominciato qualcosa di diverso, qualcosa che ricorda da vicino l’Intifada, una Intifada dei militanti (armati) che coinvolge, anche emotivamente, la popolazione. Dall’inizio dell’anno, e non solo in queste ultime settimane, ci sono forme di resistenza ai raid (dell’esercito israeliano) nella città palestinesi. Ed è qualcosa di nuovo. Fino allo scorso anno non c’erano reazioni alle incursioni israeliane in Cisgiordania, non è più così. I palestinesi sono coscienti che nello status quo non c’è alcuna speranza che l’occupazione militare possa cessare e che qualcosa possa cambiare in meglio. Non ci sono prospettive e la questione palestinese non è neppure parte del dibattito elettorale in Israele. Per gli israeliani la questione palestinese non esiste più se non nell’ambito della sicurezza. Allo stesso tempo l’Autorità Nazionale (l’Anp di Abu Mazen, ndr) ha perduto gran parte della sua credibilità. Agli occhi dei palestinesi appare come una istituzione corrotta e che lavora per conto di Israele. Infine, non per importanza, c’è l’annullamento (lo scorso anno) delle elezioni politiche e presidenziali palestinesi, un passo che ha avuto importanti ripercussioni per l’immagine dell’Anp nei Territori occupati.

 

Il nome di un nuovo gruppo armato, che si proclama indipendente, Areen al Aswad (Fossa dei Leoni), è sulla bocca di tutti i palestinesi. Perché è tanto popolare?

Siamo davanti a una resistenza, non necessariamente armata, condotta da individui che fanno riferimento a Fatah (il partito di Abu Mazen, ndr) di cui contestano la direzione politica. Areen al Aswad è composto in buona parte da uomini di Fatah delusi dalla leadership che hanno voluto e saputo coinvolgere militanti di altri orientamenti creando una sorta di unità nazionale armata che non esiste in politica. Va oltre i partiti, per questo raccoglie tanti consensi. Areen al Aswad rappresenta una rivoluzione all’interno di Fatah, è una risposta alla passività dei dirigenti del partito che fanno parte dell’Anp. La base di Fatah è stanca degli Accordi di Oslo (1993) che non hanno realizzato neppure le aspirazioni minime dei palestinesi. Per il mio lavoro mi sono registrata in un gruppo Whatsapp di Fatah e vi si possono leggere messaggi di forte condanna nei confronti dell’Anp. Areen al Aswad rappresenta queste persone ma è anche l’espressione della strada, un motivo di orgoglio per il palestinese comune.

 

Quanto osserviamo in questi giorni potrebbe causare il crollo della stessa Autorità Nazionale?

Non è una risposta facile. Credo che l’Anp, come istituzione, esisterà sino a quando godrà del sostegno di Israele e sarà interesse di Israele che resti in vita. In ogni caso, la capacità di azione dell’Anp appare al momento molto compromessa. Oggi i suoi militari non possono entrare, se non con la forza, in diversi centri abitati e campi profughi palestinesi dove sono considerati una forza ostile.

 

L’uso delle armi non rischia di frenare la resistenza popolare, non armata, che sì è dimostrata in questi anni una strada importante per raccogliere consenso internazionale alla causa dei palestinesi sotto occupazione?

La resistenza popolare va avanti anche in questi giorni in cui l’esercito israeliano e i combattenti palestinesi si affrontano in armi nelle strade di città e villaggi. Non penso che questa mobilitazione contro la confisca delle terre, la demolizione delle case, il Muro e altre manifestazioni dell’occupazione militare possa cessare o frenare. Qualcosa è cambiato l’anno scorso, con la minaccia di espulsione di famiglie palestinesi da Sheikh Jarrah (Gerusalemme). I civili palestinesi hanno compreso le potenzialità della lotta popolare. E non credo che rinunceranno ad essa, in qualsiasi circostanza.

 

Gli ultimi governi israeliani hanno introdotto la cosiddetta «pace economica», ossia la fine delle rivendicazioni politiche palestinesi in cambio di lavoro e migliori condizioni di vita. Oggi 140mila palestinesi della Cisgiordania lavorano in Israele e il loro reddito è una importante fonte di sostentamento per altrettante famiglie. Quanto questi aspetti possono incidere sulla fase in atto?

Relativamente poco a mio avviso. La vita palestinese è improntata al sumud, alla resilienza, e le privazioni economiche non spaventano gran parte della popolazione.