È raro trovare in un film, specie se un’opera prima, un equilibrio di messinscena e insieme una libertà del gesto di filmare, dei corpi, dei sentimenti capace di accendere emozioni e di sorprendere lo sguardo, specie in un festival che ha prodotto poche epifanie quale è stato quello di Cannes 75. Accade in Under the Fig Trees, esordio nel lungometraggio di Erihe Sehiri – presentato nella Quinzaine des Realisateurs, edizione questa di speciale ricchezza – un colpo di fulmine per l’intensità con cui nella sua narrazione riesce a restituire della realtà con cui si confronta – la Tunisia oggi – e le esistenze che la abitano realizzando un film politico ma mai dogmatico, al contrario attraversato dal piacere del cinema e dalla sua potenza. Tutto accade in una sola giornata e in un unico luogo, una scelta di regia quasi «teatrale» ma costruita sulla fisicità dei personaggi e dello spazio in cui si muovono che permette di rendere «vera», materica la loro natura di figure «letterarie», di affrontare questioni come il patriarcato, i conflitti generazionali, la sorellanza in un flusso emozionale vivo, che si fa sguardo, risata o sussurro e con semplicità accade davanti alla macchina da presa.
Erige Sehiri, tunisina, regista e produttrice che ha nella sua filmografia diversi documentari tra cui il molto premiato Railway Men lavora con attori e attrici non professionisti in una coralità di differenze e di conflitti che rende quel gruppo un universo.

SIAMO IN TUNISIA, in una zona rurale, l’alba si alza su uomini e donne che attendono il pick up del padrone per andare nei campi a raccogliere i fichi, i più giovani lo fanno per pagarsi gli studi, aiutare le famiglie o preparare il matrimonio e sono guidati e controllati dai più anziani che come Leila lo tengono informato su quanto accade, attenta a che nessuno sottragga la frutta o rompa i rami, e che il ritmo del raccolto venga rispettato. La paga è bassa, e il «boss» come lo chiamano cerca sempre di dare ancora meno. Tra i rami nel corso di quel lungo giorno le ragazze e i ragazzi si corteggiano, litigano, discutono affermando le proprie visioni del mondo davanti agli adulti che invece quasi sempre tacciono esplodendo – gli uomini- solo quando si parla di loro. Fide (Fide Fdihili) è la più provocatoria, gli altri spettegolano perché al mattino si siede sempre davanti col padrone, dicono che tra loro c’è qualcosa e forse è vero ma la ragazza lo tiene comunque a distanza: le piace giocare con la seduzione, è diretta con gli uomini e con le donne, per lei più libertà è studiare e emanciparsi dalle gabbie di educazione e cultura dominanti, e per questo rifiuta la fantasia del «grande amore» in cui si cullano le altre, pure le sue amiche. Come Melek che nella raccolta ha ritrovato dopo anni il suo fidanzatino dell’adolescenza, andato via all’improvviso dal villaggio si intuisce per liti famigliari dopo la morte dei genitori senza più farsi sentire . «Voleva andare in televisione a lanciare un appello» ride Fide con lui.

SANA (AMENI FDHILI) invece è molto conservatrice, piegata alla rigida educazione famigliare vorrebbe che il suo amore, Firas (Firas Amri) – di cui è gelosissima fino a litigare con le altre – diventi come lei desidera, lui invece ama uscire, ruba i fichi – e si fa aiutare dalla ragazza – approfitta un po’ di lei che gli porta il pranzo ma ha anche altre, vuole andare via perché lì non c’è nulla da fare e non accade mai niente. La regista si muove nel frutteto quasi danzando, cattura le parole che dicono di stati d’animo e di rabbia e di dolore in un orizzonte che manca, che i rami bassi celano alla vista. Cosa aspetta queste ragazze e ragazzi, quale sarà il loro futuro?

SE GLI ADULTI sembrano rassegnati – anche all’infelicità dei ruoli, i più giovani provano a resistere, le ragazze specialmente perché i maschi, molti di loro, condividono quella complicità del ruolo, di chi si può permettere ogni cosa, e se da una parte lamentano la mancanza di libertà delle ragazze – «Sono tutte velate» – dall’altra si danno il diritto alla violenza come il padrone stesso. In questi passaggi che restituiscono con precisione le contraddizioni della società tunisina la scommessa di un cambiamento passa per quelle giovani donne: sono loro le sole infatti a mettersi in gioco, seppure tra moltissimi ostacoli e inciampi, a cercare nel reciproco confronto di illuminare i limiti che spesso hanno accettato per discuterli e cercare altre possibili direzioni. È una scommessa fatta di piccoli momenti, di strappi più che di rivoluzioni – forse col sentimento di averle viste fallire – e soprattutto di una voce comune come il canto che infine spalanca una traiettoria di cielo. Senza retoriche certezze, con la dolcezza di una parola comune.