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Indonesia, l’anno proibito

Indonesia, l’anno proibitoIl golpista Suharto tra i generali musulmani

Indonesia Sotto il diktat del governo del presidente Jokowi gli organizzatori della più nota manifestazione culturale indonesiana, l’Ubud Festival, costretti a cancellare la sessione prevista per il 29 ottobre sulla repressione anticomunista del 1965 e anche la proiezione del film candidato all’Oscar «The Look of Silence» di Joshua Oppenheimer. Sequestrate anche riviste e libri sull’argomento. Dopo 50 anni il massacro di un milione di comunisti resta un tabù senza memoria

Pubblicato circa 9 anni faEdizione del 28 ottobre 2015

«È con grande disappunto che l’Ubud Writers & Readers Festival annuncia la cancellazione della sessione dedicata alla repressione anticomunista del 1965… anche la proiezione di The Look of Silence di Joshua Oppenheimer è stata cancellata». Così gli organizzatori della più nota manifestazione culturale indonesiana hanno dato venerdi scorso la notizia di un atto di censura che di fatto cancella il primo vero tentativo di fare i conti con un passato che ha appena compiuto 50 anni. Da quando un colpo di stato organizzato da una parte dell’esercito tentò, il 1 ottobre del 1965, di prendere il potere in Indonesia prima che a farlo fossero i generali che poi organizzarono la repressione immediata del putsch e, nei tre anni successivi, un vero e proprio massacro che portò all’estinzione del Partito comunista, dei suoi affiliati, simpatizzanti o semplicemente di persone contigue – per amicizia o parentela – a chi aveva simpatie di sinistra. Un incubo con un bilancio incerto che i più moderati fissano ad almeno mezzo milione di morti.

Il governo del presidente Jokowi, un civile che ha vinto da poco le elezioni sfidando proprio la lobby militare e conservatrice erede di quell’oscuro patrimonio, ha deciso però che i tempi non sono maturi per una riflessione che continua a far paura, è assente dai libri di storia se non in forma manipolata e non ha mai visto una commissione di verità e giustizia. Un incubo senza colpevoli che pesa su 250 milioni di indonesiani e sull’incapacità di una classe dirigente, ancorché progressista, di aprire finalmente il dibattito su cosa accadde in quei tre anni maledetti e nella dittatura che ne seguì per altri trenta.

La sessione dedicata a questo viaggio nella memoria doveva iniziare giovedi 29. Al centro vi sarebbe stato il discusso film di Oppenheimer (The Act of Killing 2012) – candidato all’Oscar ma che in Indonesia non è distribuito – e il seguito (The Look of Silence, Gran premio della giuria a Venezia) ma anche la discussione franca con chi di quegli anni bui ha scritto e dibattuto non senza difficoltà: stranieri e indonesiani.

Un pessimo segnale da Jakarta

Gli organizzatori hanno motivato la decisione di obbedire alle autorità col fatto che altrimenti avrebbero messo a rischio l’intero festival che si svolge a Bali e prevede 225 eventi tra mostre, film e dibattiti. È un pessimo segnale quello che viene da Jakarta proprio nell’anniversario di una delle pagine più importanti e nere sia della storia indonesiana, sia della Guerra fredda visto che il Pki indonesiano era vicino ai cinesi e il generale Suharto, che guidò la repressione esautorando Sukarno e governendo sino al 1998, era appoggiato da Washington che temeva che l’Indonesia, tassello fondamentale dell’«effetto domino» (teoria che allora guidò la guerra in Indocina), si sarebbe spostata definitivamente nell’aerea socialista,.

Cosa accadde esattamente alla vigilia di quello che un film di regime ha chiamato «Il tradimento del Pki» è ancora oggetto di dibattito. Untung, un soldato che era stato promosso durante la guerra con l’Olanda per l’indipendenza, si era incontrato in una base militare della capitale con Aidit, l’allora capo del partito comunista, il più forte dell’Asia dopo quelli cinese e sovietico. È possibile che avessero organizzato quello che fu chiamato un «golpe preventivo» poiché erano note le intenzioni del Dewan Jendral, il consiglio dei generali musulmani che avevano in odio la politica di Sukarno che, in un bizzarro equilibrio e nell’esercizio di quella che aveva chiamato «Democrazia guidata», coniugava nazionalismo, religione e comunismo con una costruzione ideologica che aveva partorito il Nasakom (Nasionalisme, Agama, Komunisme), una terza via comunque preoccupante.

Guerra fredda e Non Allineati

Era l’epoca in cui, agli inizi degli anni Cinquanta, aveva preso il via proprio dall’Indonesia – con la Conferenza di Bandung – il Movimento dei Non Allineati nel quale Sukarno era al fianco di Tito, Nehru, Nasser e Ciuenlai. Un’epoca in cui, dopo la fine delle colonie, si affaccia il neo colonialismo americano e la spartizione del mondo tra Usa e Urss che caratterizzerà anche la spaccatura nell’area socialista. Sukarno era un alleato di Aidit e del suo Pki ma manteneva le distanze. Non abbastanza però per i generali e gli strateghi della Cia, che consideravano l’Indonesia una pedina chiave nel Sudest asiatico minacciato dalle promesse di riscatto dei nordvietnamiti.

Probabilmente Untung e Aidit pensarono che era il caso di metterlo alle strette e di evitare che il suo equilibrismo diventasse l’occasione per soluzioni autoritarie di destra. Untung aveva influenza sulla guardia presidenziale e sulla divisione Diponegoro, schierata nella capitale per la ricorrenza del 5 ottobre, festa delle forze armate: col loro aiuto voleva impadronirsi dei gangli del potere, occupare la radio nazionale (l’unica cosa che riuscì), sequestrare alcuni generali (in parte trucidati) e mettere Sukarno sotto tutela andando a prenderlo a Palazzo. Ma il golpe fallì e quando i soldati di Untung andarono a prelevarlo, Bung Karno (il «compagno» Sukarno) era lontano, in compagnia di un giovane generale: Suharto.

La fortuna del golpista Suharto

Sukarno si spaventa o viene convinto; forse sapeva oppure – come sempre dirà – era all’oscuro di tutto. Affida i pieni poteri a Suharto che approfitta dell’ondata di sdegno che segue al sequestro dei generali e soprattutto dell’impreparazione tattica di Untung che ha fatto male i conti. Suharto stringe i ranghi, assolda milizie, fa lega con i landlord spodestati dalla riforma agraria e mette in opera un vero e proprio genocidio contro la «razza comunista». Incendi, torture, stupri, fosse comuni. Aidit viene catturato e ucciso quasi subito. Untung è condannato a morte dai militari.

Nessuno di loro potrà più testimoniare. I morti furono 500mila o più di un milione, anche secondo fonti occidentali, e la strage colpì ogni famiglia. Il triennio stragista si concluse con un silenzio che dura ormai da cinquant’anni anche se timidi segnali erano venuti dopo la caduta e la morte di Suharto ma senza mai arrivare a un vero dibattito nazionale di cui il Festival di Ubud era la prima vera occasione. Cancellata da un uomo, al potere da un anno, su cui invece si erano appuntate molte speranze. Anche quella di aprire quella pagina per poterla richiudere poi al prezzo della verità, l’unica via perché si possa parlare di giustizia.

Jokowi, già governatore di Jakarta, un mister clean progressista venuto dal nulla, di segnali imbarazzanti ne ha però dati parecchi. A cominciare dalle esecuzioni che nel 2015 sono state già 14 (27 nel periodo 1999-2014). Nei giorni scorsi il suo governo è entrato ancora nel mirino di Amnesty che gli chiede di revocare il nuovo codice penale islamico della provincia di Aceh, entrato in vigore il 23 ottobre: il Qanun Jinayat, che punisce i rapporti extra coniugali e l’omosessualità a frustate, tra 30 e 100. Ed è di questi giorni la polemica sulla decisione di un giudice di chiedere al presidente un decreto sulla castrazione chimica per gli abusi sui minori. Ce n’è insomma perché si torni a parlare di un Paese che era diventato un piccolo miracolo di democrazia e sviluppo.

I suoi fantasmi continuano a regnare.

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