Dai deserti post apocalittici dei Mad Max, all’idilliaca fattoria di Babe, al New England delle streghe di Eastwick al Polo Sud di Happy Feet, come Guillermo Del Toro, Robert Zemeckis e Wes Anderson, George Miller è un creatore/narratore di mondi fantastici. Il suo ultimo film, Three Thousand Years of Longing, fuori concorso a Cannes, è allo stesso tempo un altro viaggio dell’immaginazione e una riflessione sul raccontare stesso. Il che lo rende il film più «meta» che Miller abbia mai realizzato. E quello più «da camera». Duetto tra una solitaria studiosa inglese (Tilda Swinton) e il genio (Idris Elba) che lei scopre in una bottiglia di vetro acquistata in un bazar di Istanbul, Three Thousand Years, era in cantiere dalla metà degli anni Novanta, quando Miller, dopo aver letto un suo saggio sul supplemento letterario del «New York Times», acqu istò i diritti di The Djinn in the Nightingale della scrittrice di Possession, A.S. Byatt.

QUASI TUTTO ambientato nella stanza di un albergo sulla riva del Bosforo (le riprese previste in Turchia affossate dalla pandemia, l’intera produzione ha dovuto ripiegare su un teatro di posa australiano), il film esce da quello spazio ristretto grazie ai fantasmagorici racconti del genio, che evocano davanti ai nostri occhi la corte di Sheba e Salomone, i caleidoscopici corridoi di Palazzo Topkapi all’apogeo dell’Impero ottomano, e la Londra dei nostri giorni. Tre desideri che arrivano del profondo del cuore libererebbero il genio per sempre.

Il regista trae grande piacere della concatenazione infinita offerta da una struttura a flusso di racconti che ricorda quella di Le mille e una notte.

MA LA STUDIOSA che (nonostante il fantastico la incalzi in modo piuttosto prepotente e diretto anche quando insegna o tiene una conferenza), a forza di storie, ha cercato tutta le vita di imbrigliare l’irrazionale nelle maglie della scienza e della plausibilità, non vuole desiderare nulla. Un desiderio è una debolezza, esporsi alla possibilità di un disastro, ammettere di avere bisogno dell’ «altro». Lui, che ha i piedi coperti di squame blu un po’ come l’uomo pesce di La forma dell’acqua e le orecchie a punta come il genio di Il ladro di Bagdad, le apre la testa a forza di guerrieri sanguinari, principesse bellissime e concubine grasse, incantesimi e tradimenti, battaglie, estasi sessuali e congiure di palazzo -e le racconta delle donne (belle, sciocche o intelligentissime) di cui si è innamorato così pazzamente che, per una ragione o per l’altra, è stato costretto a passare tutti quei secoli imbottigliato.

MILLER (che ha co-sceneggiato il film con sua figlia, Augusta Gore) trae grande piacere della concatenazione infinita offerta da una struttura a flusso di racconti che ricorda quella di Le mille e una notte. Il film è una festa per gli occhi da cui Swinton e Elba emergono stoicamente credibili, senza farsi inghiottire dal maelstrom del CGI. Non era facile. Ma la dimensione allegorica un po’ troppo ovvia e la scrittura fitta fitta (Mad Max Fury Road era un film praticamente muto, questo è parlatissimo) appesantiscono la gioia del racconto puro, l’istinto per l’avventuroso e lo humor di cui Miller ci aveva resi complici nei suoi film migliori. Three Thousand Years of Longing non è solo un film letterario, è anche un film letterale. E un quello trova il suo limite.