In Moldavia centri di classe per poveri e non ucraini
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In Moldavia centri di classe per poveri e non ucraini

Rifugiati nel centro sportivo di Chisinau, Moldavia – Ap

La grande fuga Nel centro sportivo di Chisinau trovano posto azeri insieme a famiglie rom e zigane. Secondo il governo nel Paese si trovano poco più di 100 mila profughi

Pubblicato più di 2 anni faEdizione del 22 marzo 2022
Mattia FonziCHISINAU

«Il governo ha deciso di distribuire le persone così, perché è più comodo così. Nessuno qui sta discriminando, lo facciamo per far rimanere coese le comunità». Una giovane volontaria del Manej, uno dei maggiori centri di accoglienza per profughi ucraini di Chisinau, risponde in modo cortese ma determinato, quando le domandiamo perché nel centro trovano riparo quasi esclusivamente famiglie di chiare origini non ucraine.

FINO A QUALCHE settimana fa il Manej era uno dei più importanti centri sportivi della capitale della Moldavia. Oggi il suo parquet può ospitare fino a 700 persone, mentre sugli spalti giocano a rincorrersi i bambini. Qui sono state accolte famiglie rom e zigane, oltre a una folta comunità azera. Provengono per lo più dagli oblast di Odessa e Mikolayv, due delle città più popolose dell’Ucraina meridionale. Sono entrate dal valico di Palanca, nelle ultime settimane attraversato da migliaia di profughi in fuga da una guerra che non vogliono.

Centinaia di letti sono affiancati l’uno all’altro, senza divisori né pareti. Appare come un ricovero d’emergenza appena aperto, non sembra sia passato quasi un mese dall’inizio della guerra. Qualcuno, autonomamente, ha sistemato materassi inutilizzati e ne ha fatto le pareti della propria nuova temporanea «stanza riservata». Parlando con le persone, l’impressione è che appartengano a un ceto sociale non abbiente. Famiglie che fuggono da una vita che, forse, non era serena neanche prima della guerra.

Il centro è gestito dal governo moldavo. A differenza delle forze dell’ordine, presenti in buon numero, i volontari nel centro non sono molti. «Vivevo a Odessa. Vorrei tornare lì, quando sarà possibile. Ma potrei rimanere anche qui. Vedremo», ci dice un profugo, in balia di una vita sospesa, nell’attesa che il conflitto termini.

In realtà non sono in molti a volersi ricostruire una vita nella Repubblica di Moldavia. Il piccolo paese della Bessarabia, “stretto” tra la Romania e l’Ucraina, non offre quello che possono offrire nazioni come la Polonia, la Germania o l’Italia.

Basti pensare che nel 2021 il pil della Moldavia ammontava a 11 miliardi di euro (3,6 mila dollari pro capite), quello dell’Ucraina era quasi 15 volte superiore in termini assoluti (150 miliardi di euro), e più alto anche in relazione alla popolazione (4,1mila dollari pro capite). Non sono pochi gli ucraini che alloggiano autonomamente negli hotel del centro di Chisinau, parcheggiando nei piazzali auto di grossa cilindrata. D’altro canto, la guerra non guarda in faccia al conto in banca o al ceto sociale.

IN QUESTA SITUAZIONE, essere costretti a fuggire in un paese meno ricco non è un aspetto irrilevante nel valutare se restare o tornare. Nei primi 24 giorni di guerra sono entrate in Moldavia 362mila persone, circa 15mila al giorno. Ma per il governo sono poco più di 100mila i profughi attualmente ancora nel paese, di cui la maggior parte ospitati in famiglie e una parte, minoritaria, nei centri di accoglienza.

Le famiglie autoctone si stanno dimostrando estremamente accoglienti, e rappresentano per molti ucraini una soluzione temporanea. In molti, infatti, preferiscono continuare il loro viaggio, entrando in Europa. Basti pensare che alla frontiera di Palanca sono numerosi gli autobus che dal confine partono ogni giorno direttamente per la Romania e la Polonia, senza soste intermedie a Chisinau o in altre città del Paese.

C’è tuttavia chi rimane. Lo fa principalmente per due motivi.

Da un lato la vicinanza geografica all’Ucraina permetterebbe, a guerra terminata, un rientro immediato.

Dall’altro c’è chi non ha disponibilità economiche, né possibilità di sfruttare reti sociali all’estero. Così si ritrovano profughi in una nazione che, seppur più povera di quella da dove arrivano, permette loro condizioni di sicurezza e assistenza personale. «Con il passare dei giorni arrivano persone con sempre minori disponibilità economiche», conferma una volontaria italiana alla frontiera di Palanca. È in quest’ultimo contesto che si può comprendere l’attuale situazione al Manej di Chisinau.

C’È POI il più grande centro di accoglienza della capitale. Si trova nei padiglioni del Moldexpo, un spazio per fiere, che fino a poche settimane fa era tra i maggiori hub per la vaccinazione anti-Covid. La struttura, aperta inizialmente dalla municipalità di Chisinau, da qualche giorno è gestita dal governo.

Entrando nel Moldexpo sembra che si sia di fronte a un’altra guerra. In tutti i padiglioni sono presenti un’infinità di pannelli in forex, prima del conflitto utilizzati per la campagna vaccinale. Dentro sono state ricreate stanze da letto divise per nuclei familiari – quasi esclusivamente donne con figli minori – che garantiscono una relativa privacy. Anche in questo le persone provengono per lo più dalle regioni di Mikolayv e Odessa, ma le storie che raccontano sono diverse rispetto al Manej, come probabilmente è diversa anche la loro estrazione sociale. Incontriamo persone che fino a fine febbraio lavoravano come commesse e cameriere. Erano impiegate presso studi medici o al porto di Odessa.

«Ringrazio chi ci sta accogliendo. Ma vogliamo tornare a Odessa appena sarà possibile. Non abbiamo abbandonato la nostra terra, vogliamo tornare alla vita nella nostra città», ci dice Arkagi, tra i pochi uomini ospitati, che dorme in una delle stanze insieme a Julia, la sua giovane moglie incinta, e ai suoi figli Lev e Hanna.

A DIFFERENZA del Manej, l’entrata del padiglione principale di Moldexpo è occupata da numerose organizzazioni transnazionali e ong moldave, con una presenza imponente di volontarie che indossano le divise di Iom e Unhcr.

Ci sono anche assistenti legali, come l’avvocata Ludmila Cara: «Arrivano moltissime donne senza documenti – afferma – noi le aiutiamo a ricostruire la loro storia, in modo che abbiano tutte le carte in regola quando andranno altrove». La maggior parte delle ospiti rimane due o tre giorni, il tempo di organizzarsi per l’ospitalità in famiglia, o di prendere un bus. «Moltissime persone vanno in Germania, grazie a una convenzione tra il governo moldavo e quello tedesco».

Come accade nelle emergenze, probabilmente sia Moldexpo che Manej si struttureranno meglio nelle prossime settimane, istituzionalizzandosi ancora di più. Oggi sono entrambi rifugio di una stessa guerra, che però racconta due storie diverse.

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