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In Messico c’era la vita, irrilevante come un refuso

In Messico c’era la vita, irrilevante come un refusoUna scena da Under the Volcano, diretto da John Huston nel 1984

Classici del '900 ritradotti Dopo oltre mezzo secolo, «Sotto il vulcano» esce da Feltrinelli in una nuova versione di Marco Rossari: incantata nei passaggi più lirici, torbida in quelli triviali. Restituendo al romanzo la musica voluta da Malcolm Lowry

Pubblicato più di 6 anni faEdizione del 29 aprile 2018

«Ogni giorno nuovi lettori scoprono Sotto il vulcano e lo considerano un libro fondamentale. Chi lo ha letto una volta vi tornerà sempre». Correva il 1961 quando Maurice Naudeau scriveva queste parole a introduzione di un numero della rivista Les Lettres nouvelles dedicato a Malcolm Lowry. Lo scrittore era deceduto quattro anni prima, neanche cinquantenne, pesantemente provato nel fisico e nelle finanze. Secondo una leggenda letteraria nostrana, nel 1961 era però comunque a Milano per festeggiare alla sua maniera, ovvero con «una sbornia epica», l’uscita della prima traduzione italiana del suo capolavoro; la seconda arriva ora, dopo oltre mezzo secolo, a firma di Marco Rossari per lo stesso editore: Sotto il vulcano (Feltrinelli, pp. 425, €18,00).

L’impresa di Monicelli
Stando a un aneddoto gustoso ma non veritiero, quella bevuta fu talmente robusta che Lowry terminò la nottata all’ospedale Niguarda, diversamente dal suo compagno di bottiglia Giorgio Monicelli che «dimostrò maggior tempra e tenuta». All’epoca Monicelli era impegnato nella non facile impresa di tradurre Sotto il vulcano e, quanto a bere, sapeva stare all’altezza dell’autore. Ritratto in termini di «genio e sregolatezza» e paragonato un po’ impropriamente a Luciano Bianciardi, aveva ideato e diretto per anni la mitica rivista «Urania»: fu lui a rendere con «fantascienza» il termine science-fiction.

Nella sua recensione a Sotto il vulcano, Oreste Del Buono commentò la traduzione definendola «vivissima» e non tralasciando di osservare che Monicelli era «amico fraterno» dell’autore e che il suo lavoro non aveva nulla da invidiare a quello mai troppo lodato svolto da De Angelis sull’Ulisse di Joyce, uscito poco tempo prima in quello stesso anno.

Sotto certi aspetti, la versione italiana fu un processo più lungo dei tormentati dieci anni che occorsero a Lowry per scrivere il romanzo. Sebbene uscita soltanto nel ’61, era stata in cantiere diversi anni, passando per diversi editori, a cominciare da Einaudi che già nel ’48 aveva espresso il suo interessamento. In molti avevano acquistato i diritti, ma al momento del dunque nessuno si decideva a stamparlo. Il manoscritto aveva corso il rischio di andare perduto in un incendio mentre Lowry ci stava ancora lavorando, una delle tante traversie per cui il romanzo passò prima di giungere alla pubblicazione e mostrare la propria capacità di resistere al tempo, nonostante la sua complessità. Lowry lo descriveva così: «una forma di sinfonia o una sorta di opera o anche un’opera western. È musica calda, un poema, un canto, una commedia, una farsa e così via. È superficiale, profondo, interessante o noioso, a seconda dei gusti. È una profezia, un monito politico, un criptogramma, un film assurdo».

Come altri libri che aspirano all’«opera totale», capace di abbracciare l’esistenza umana in ogni suo aspetto, l’azione di Sotto il vulcano si svolge in un solo giorno. La sua scarna trama racconta le ultime dodici ore su questa terra di Geoffrey, ex console britannico di stanza in Messico, segnatamente in una piccola città alle falde di un vulcano. Nel corso della giornata, la moglie Yvonne, che lo ha lasciato, riappare inaspettata ma i tentativi di riconciliarsi sono minati dagli eccessi di Firmin, dal bere ininterrotto, dal comportamento violento. Il quadro è complicato da una comparsa ulteriore, quella di due ex amanti di Yvonne, un fratellastro di Firmin e suo amico, un regista francese. La giornata si chiude con l’ex console ucciso da un fascista messicano che lo scambia per un delinquente, e Yvonne calpestata da un cavallo in fuga.

Morte di un indio
Nell’ottica di Lowry, la predestinazione alla rovina di Firmin e il suo bere ostinato servivano «a simbolizzare lo stato di ubriachezza nel quale ha vissuto il genere umano durante la guerra o durante il periodo che l’ha immediatamente preceduta». Su tutto aleggia, quasi a monito, una frase scritta sul muro di una casa: No se puede vivir sin amar. Frase ormai nota anche a chi non ha letto il romanzo e che fa intuire quanto sia stata lunga e tortuosa la sua origine.
Dopo essersi laureato Cambridge, Lowry si spostò parecchio. A Londra, in Spagna, dove conobbe la donna che divenne la sua prima moglie, poi in Francia, quindi negli Stati Uniti. Nel 1936 giunse in Messico, dove, il 2 novembre assistette impotente alla morte di un indio. L’uomo giaceva ferito sul ciglio della strada, ma la legge messicana impediva a Lowry di aiutare lo sventurato, che morì e venne derubato dei suoi soldi da un contadino.

Nel romanzo gli accadimenti di quel giorno ritornano in maniera molto trasfigurata, rievocati da due testimoni a distanza di un anno esatto, un tempo breve ma sufficiente perché sembrino appartenere a «tempi in cui la vita individuale aveva ancora un valore e non era solo un refuso in un comunicato». Il virgolettato proviene dalle pagine iniziali del romanzo nella nuova versione di Marco Rossari: la frase è importante per come ci fa presagire la tragica fine di un personaggio che ancora non conosciamo ma già sentiamo protagonista; e tuttavia la forma è in apparenza innocua, tanto che il confronto con la traduzione di Monicelli mostra differenze irrilivanti: «i giorni in cui una vita individuale conservava qualche valore e non era un semplice errore di stampa in un comunicato». Su un testo tanto complesso la partita si gioca altrove; tuttavia, in questa semplice frase stanno almeno due delle ragioni per cui – al di là degli errori, che in una traduzione non costituiscono mai il vero discrimine – questa nuova versione va salutata come una festa.

Per un verso, infatti, viene eliminata la polvere cui nessun traduttore può sfuggire e che qui traspare nel dettaglio della resa di some value, che preferisce «qualche valore» anziché l’articolo indeterminato «un». E per altro verso, questa traduzione favorisce un andamento più morbido, preferendo l’«aveva ancora» al «conservava». La precedente versione vantava tra i suoi non pochi meriti, il fatto di essere stata condotta in un’epoca pioneristica, quando molte informazioni erano inattingibili. Ma la musicalità evidentemente ricercata era tutta a carico dell’orecchio di Monicelli, che a tratti, come nel labirintico attacco del terzo capitolo, tendeva ad addomesticare il testo rendendolo però stranamente più accidentato; in altri passaggi, invece, ne uniformava troppo il tono o smarriva certe alliterazioni, e le sovrapposizioni di senso e suono, di spagnolo e inglese.

Varianti di un pollo
Valga a titolo di esempio la famosa scena alla fine del romanzo, quando il Console declama i piatti indicati nel menu, reinventandoli sotto i fumi del mescal. Lo spectral chicken of the house del testo diventa un «pollo alla diabolica» in Monicelli e ritrova in Rossari, con «pollo speziale», un’eco di quanto il Console sta effettivamente storpiando ovvero il pollo in quanto specialità della casa.
Al netto dei buchi e delle inesattezze finalmente emendati, questa nuova versione – incantata nei momenti più lirici, torbida in quelli più bassi e triviali – ci restituisce quel che alla fine davvero conta, la musica calda e variegata di cui parlava Lowry. Chi avesse letto in passato Sotto il vuilcano potrà tornare a ripercorrerne le pagine senza temere – come proferizzava Naudeau – di imbattersi in una delusione.

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