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In Georgia una crisi senza ritorno

In Georgia una crisi senza ritornoAstrit Dakli – Marco Cinque

Il 31 gennaio 2016 è morto a Roma Astrit Dakli. Questo suo commento è stato pubblicato sul manifesto del 27 agosto 2008. Dunque Dmitrij Medvedev ha deciso di non prendere tempo, rendendo immediatamente […]

Pubblicato quasi 9 anni faEdizione del 2 febbraio 2016

Il 31 gennaio 2016 è morto a Roma Astrit Dakli. Questo suo commento è stato pubblicato sul manifesto del 27 agosto 2008.

Dunque Dmitrij Medvedev ha deciso di non prendere tempo, rendendo immediatamente operativo il riconoscimento dell’indipendenza delle due regioni secessioniste georgiane, Abkhazia e Sud-Ossezia, e suscitando un’enorme ondata di scandalo e furore in Occidente.

Attenti, però: la decisione del Cremlino non è la causa della gravissima tensione internazionale cui stiamo assistendo, bensì la sua conseguenza. È la presa d’atto che nessun negoziato, nessuna soluzione politica sarà possibile – non in tempi realisticamente prevedibili – visto che l’Occidente non ha la minima intenzione di riconsiderare la propria pretesa di dettar legge al resto del mondo, come sta facendo sin dal fatidico 1989 con conseguenze catastrofiche.

Non avrebbe avuto alcun bisogno di compiere questo passo, Medvedev, se la flotta da guerra della Nato non si fosse precipitata a schierarsi davanti alle coste russe del Mar Nero, se non fosse partita la corsa a riarmare subito un regime aggressivo e irresponsabile come quello di Tbilisi, se i governi di Usa e Ue non avessero continuato a somministrare a Mosca condanne e ultimatum, ignorando totalmente le plateali responsabilità del loro alleato georgiano. Se, in una parola, ci fosse stata la disponibilità occidentale a discutere sul serio dei fatti accaduti nel Caucaso e a cercare una soluzione comune invece di una rivincita.

Ma non è accaduto. A impedire qualsiasi dialogo è stata una precisa scelta ideologica dei governi, incapaci di concepire l’idea di non aver sempre ragione e persino di rendersi conto della propria debolezza e della distanza crescente che li separa dai propri cittadini.

In Russia e in Cina oggi il consenso intorno ai rispettivi «autocratici» governi è probabilmente assai più alto di quello che raccolgono i «democratici» governi occidentali, Usa in testa; lo si percepisce anche spulciando i «commenti dei lettori» sui grandi siti d’informazione – Bbc, New York Times e simili – in netta maggioranza più realisti e aperti alle ragioni altrui di quanto non siano i governi di Londra e Washington, che i lettori accusano invece di muoversi in modo ipocrita e falso, con due pesi e due misure.

E ora?

Il passo di Medvedev ha tracciato una linea dalla quale gli sarà difficile tornare indietro. Nei giorni scorsi era apparso del resto chiaro che il Cremlino non ha alcun timore delle reazioni politiche occidentali, perché da un ritorno a situazioni di guerra fredda l’Occidente (e l’Europa in particolare) ha da perdere assai più di quanto non abbia Mosca. L’elenco dei cerini che Usa ed Europa si trovano ad avere in mano accesi è lungo: dall’Afghanistan all’atomica iraniana, dall’energia all’Ucraina (che non potrà sopravvivere come stato unitario, in un’Europa lacerata).

La palla è quindi nel «nostro» campo.

Sono i nostri governi che devono incominciare finalmente a ragionare, mettendo da parte isterie, frustrazioni e pregiudizi ideologici per capire come venir fuori dal vicolo cieco in cui sono andati a cacciarsi in questi ultimi vent’anni con presunzione e arroganza.

L’uscita di scena di George Bush potrebbe esser l’occasione per una svolta; ma quel che Obama (per non parlare del suo rivale McCain) va dicendo in queste ore non lascia spazio all’ottimismo.

 

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