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Grozny 1999, trappola nella città fantasma

Grozny 1999, trappola nella città fantasmaVia Lenin, nel centro di Grozny il 28 marzo 1995 – Eddie Opp/Kommersant/Zumapress - LaPresse

Reportage da Grozny Le macerie della guerra passata e quelle dei nuovi raid. Questo reportage di Astrit dalla Cecenia, è stato pubblicato sul manifesto del 7 ottobre 1999.

Pubblicato quasi 9 anni faEdizione del 2 febbraio 2016
Astrit DakliINVIATO NEL CAUCASO

Il 31 gennaio 2016 è morto a Roma Astrit Dakli. Questo suo reportage dalla Cecenia, è stato pubblicato sul manifesto del 7 ottobre 1999.

Le truppe avanzano verso Grozny seminando morte e distruzione – proprio come fecero cinque anni fa,

con apparente disinvoltura, salvo poi essere disfatte in una trappola feroce dentro la capitale cecena. I politici e i generali russi ripetono la stessa, stupida combinazione di brutalità e inefficacia. Ma un effetto, almeno, la dissennata politica di Boris Eltsin e del suo regime nella regione caucasica l’ha avuto: tutti gli abitanti della zona, di tutte le etnie, lingue e religioni sono diventati nostalgici dei tempi sovietici, e dei comunisti.

“Quando c’erano i comunisti – è il ritornello di chiunque – c’era la pace, non c’era paura per strada, venivano i turisti…”. Lo si sente ripetere (tra la gente semplice, s’intende) da cerkessi e osseti, da kabardini e àvari, da tutti coloro che abitano queste splendide valli, martoriate da guerre e tensioni che ricordano il medioevo più buio; lo dice il contadino inguscio con cui parli al volo per strada e lo dice il guerrigliero ceceno che parla con te per ore, di notte, davanti alla caserma di Grozny dove vengono alloggiati (e custoditi) i rarissimi ospiti stranieri, meravigliandosi di quanto sporca di soldi possa essere la politica, compresa quella dei suoi stessi capi.

Parole, naturalmente. Quando e se si va a votare, nel Caucaso, nessuno vota per i comunisti, ammesso che se ne trovino ancora in gara. E del resto, quelli che comandavano ai tempi dei comunisti continuano a comandare oggi, con vari cappelli in testa, a Mosca come quaggiù: dunque qual è il problema?

Ricordare i “tempi belli” – e gli unici di cui si ha memoria sono quelli comunisti – serve comunque a mascherare la realtà dell’odio e del disprezzo che ogni popolo da queste parti ha per i suoi vicini, quelli della valle accanto, anche quando si esalta la fratellanza. Questi sono banditi, quegli altri sono usurpatori, questi erano amici di Stalin, quelli hanno aiutato i nazisti… Ogni repubblichetta tra i monti è piena di profughi cacciati o fuggiti dalla repubblichetta vicina, ognuno con alle spalle tragiche storie di persecuzioni, espropri, violenze. In comune, oltre al cibo, ai costumi e a gran parte delle usanze, c’è naturalmente anche l’odio e il disprezzo per i russi, soprattutto per i soldati. E da queste parti di soldati ce ne sono davvero tanti: le strade sono tutte rovinate dai cingoli dei carri armati, un po’ ovunque si sente l’eco lontana dei cannoni, posti di blocco sono dappertutto.

“Veri caucasici”

La valle di Galashki, nel sud dell’Inguscetia, è un buon esempio di tutto questo. Stretta, lunghissima, costellata di villaggi dall’aria modesta ma non misera, pieni di bestiame di tutti i tipi, case grandi e in buono stato; anche una meraviglia della natura, dove è normale vedere delle aquile sui pali della luce e degli sciacalli ai lati della strada. Eppure… “Di là da quella cresta è già Cecenia – dice Issar, che ci sta portando in giro – e i ceceni sono nostri fratelli. Però da lì vengono ogni tanto i banditi, hanno ucciso due ragazzi nostri, vedete là le tombe, e hanno anche rubato…”. E di là dalla cresta opposta, “lì è già Ossetia, anche se era terra nostra, che gli osseti ci hanno tolto. Loro sono venuti molto dopo, non sono veri caucasici…”.

In fondo alla valle ci sono le famose torri ingusce, l’unico monumento storico della micro-repubblica (compaiono anche nello stemma nazionale), curiosi edifici di pietra che risalgono al medioevo e servivano a difendere ogni famiglia dai vicini. Oggi la difesa dai vicini è garantita dai campi trincerati della vojska, l’esercito federale. Vietato avvicinarsi, ma tanto si vede tutto benissimo da lontano: gli obici semoventi, i carri armati interrati fino alla torretta, l’artiglieria pesante, i camuffamenti contro la ricognizione aerea (ma di chi, poi?). In tutta la valle abbiamo visto almeno 150-200 tank, più i mezzi blindati, i camion e via dicendo. Un esercito. Che ci fanno lì?

Sparano. A orari fissi, come un’esercitazione, sparano grandinate di proiettili da 155 mm al di là della cresta – la cresta cecena, naturalmente, perché come dice Issar “i banditi sono là”. I poliziotti ingusci che sorvegliano la strada vicino alle batterie che sparano sorridono soddisfatti. Ma non erano fratelli? La terminologia lanciata da Mosca dilaga anche da queste parti. Tutte le tv di stato mostrano ossessivamente ogni giorno la faccia del premier Putin che parla di distruzione dei banditi: termine diventato sinonimo equivalente di “terroristi”, di “wahhabiti”, di “guerriglieri” e in ultima analisi di “ceceni” (anche se in effetti sono tutte cose diverse, a volte persino antagoniste). E ora anche la gente della valle parla così – salvo poi dire che tutto quanto sta avvenendo è colpa della vojska.

Di là dalla cresta, in Cecenia, l’effetto di questa “lotta contro i banditi” è devastante. Le armi che vengono usate sono tanto potenti quanto inadatte e indiscriminate. Chi paga per la dissennatezza del loro uso è la popolazione civile normale e pacifica, e paga assai caro. Eccoci a Urus-Martan, una cittadina agricola di ventimila abitanti non lontana dal confine con l’Inguscetia: qui, sabato 2 ottobre, sono stati in 150 a pagare con la propria vita quando l’aviazione russa ha deciso che da quelle parti c’erano dei “banditi” (e gli ingusci, i “fratelli”, confermano: “Lo sanno tutti che a Urus-Martan ci sono i wahhabiti”). Cinque o sei raid in due ore, e il risultato è davanti a noi: centocinquanta morti, un’ottantina di case distrutte, alcune vie della cittadina sembrano come spazzate da un terremoto. A sbriciolarsi insieme ai loro abitanti sono tutte case povere, piccole, fatte di legno paglia e fango, con giusto un po’ di cemento e qualche mattone alla base.

Nelle terre di Basaev

“Finché le cose continuano così, certo che ci saranno i wahhabiti. Anzi, considerate pure anche me un wahhabita”, dice furioso Ahmet Zakaev, vicepremier ceceno, ministro della cultura, già attore di teatro conosciuto sulle scene moscovite e oggi comandante di una brigata di combattenti tra i cui compiti c’è anche quello di “colpire i militari russi sul loro territorio”.

Scene simili, solo ancor più penose per la povertà e lo squallore della vita interrotta dalle armi, le abbiamo viste nei miseri villaggi ceceni prossimi alla frontiera con il Dagestan, a ridosso della regione di Novolaksk dove da agosto in poi si sono svolti i combattimenti con i guerriglieri di Shamil Basaev. Lì il tuono sordo delle cannonate e le secche scariche delle salve di razzi “Grad” che piovono da oltre le montagne interrompono di continuo il maestoso silenzio delle valli. In distanza, pennacchi di fumo bianco e qualche fiamma indicano i punti dove i proiettili sono arrivati, i bersagli. Uno di questi, centrato sotto i nostri occhi, è il villaggio di Dargo, nella regione di Vedeno, feudo di Basaev e dei suoi guerriglieri. Un villaggio isolatissimo, dove si arriva solo con un’ora di cammino a piedi; e con cautela, perché chi ci scorta – gli uomini del presidente ceceno Aslan Maskhadov, che hanno preso in carico un gruppo di giornalisti russi e occidentali per alcuni giorni – non sa se a Dargo ci siano o no degli uomini di Basaev, con i quali i rapporti sono pessimi. Ad ogni modo risulta presto che nel villaggio non c’è nessun guerrigliero o bandito o estremista di sorta. C’è solo un po’ di povera gente che piange raccolta davanti a due cadaveri di ragazzi sfigurati dalle esplosioni che li hanno uccisi mentre erano nel campo. Intorno, qualche casetta distrutta; una di queste è tutta circondata da un tappeto di piumette bianche – i resti di quella che era probabilmente l’unica ricchezza domestica, dei cuscini da letto esplosi con tutto il resto.

La gente, a Urus-Martan come a Dargo o come a Benoi, un villaggio un po’ più a valle dove due settimane fa gli aerei hanno fatto strage uccidendo otto fra donne e ragazzini, e che poi le autorità militari russe hanno definito “una base dei terroristi”, è esasperata. Ce l’ha con i “banditi”, che “non sono nemmeno ceceni, vengono da fuori, dal Dagestan; noi qui non li lasciamo entrare e per ringraziamento i russi ci bombardano…”; e ce l’ha con Mosca, che non vuol capire quanto i ceceni amino la pace e che non fa nulla per difenderla, questa pace.

Mosca fa davvero poco, in effetti. Anzi, si può dire che in questi anni abbia fatto di tutto per aggravare i conflitti, gli odi e le tensioni. Per esempio con il blocco economico: rifiutando alla Cecenia, con cui pure Boris Eltsin nel ’96 firmò un trattato solenne, qualsiasi aiuto per la ricostruzione, qualsiasi fornitura (gas, luce, acqua), qualsiasi pagamento di pensioni e stipendi arretrati dovuti a chi per una vita aveva lavorato per le aziende di stato russe. Quanto alla “comunità internazionale”, non ha fatto e continua a non fare una piega: la posizione resta quella solita, secondo cui si tratta di “affari interni alla Federazione russa” e non c’è bisogno di immischiarsi, neanche cercando di dare un sostegno economico a una popolazione strangolata.

Rovine e nuovi ricchi

Così oggi Grozny è identica a come la lasciò nel 1996 una guerra spaventosa durata due anni. Scene da Germania ’45: tutto il centro e gran parte della periferia residenziale sono soltanto macerie e rovine, palazzi sventrati dalle cannonate, anneriti dagli incendi, sbriciolati dalle bombe. Sembra un miracolo che ci sia ancora gente in giro, qualche appartamento abitato in mezzo a quelli distrutti, un certo traffico di auto, un semaforo funzionante, qualcosa che somiglia (molto da lontano) a una vita urbana. In contrasto feroce ci sono poi le strade dove invece si allineano le case dei nuovi ricchi, trafficanti, mafiosi: grandi ville di mattoni rossi, nuove di zecca, circondate da alti muri, senza le finestre al pianterreno o con le finestre chiuse da lastre d’acciaio… Un segno in più che la sicurezza qui è un bene raro; anche noi giriamo per Grozny con una massiccia scorta in assetto di battaglia, come se un attacco armato potesse avvenire da un istante all’altro.

Il commercio, in città come nei paesi, è ridotto a lunghe teorie di chioschetti per strada, e a un’infinità di improvvisati rivenditori di benzina (in bottiglie di vetro da 10 litri), l’unico bene, insieme a un po’ di generi alimentari, che ancora si produce in Cecenia. E non per molto, se continueranno i bombardamenti sulle raffinerie e sui pozzi di petrolio. Miseria e crimine sono il frutto velenoso del blocco imposto da Mosca, così come il proliferare dell’estremismo religioso (ma è ancora da dimostrare quanto la setta wahhabita abbia davvero fatto presa su una parte della popolazione: tutti coloro con cui abbiamo parlato ci hanno detto di non volerne sapere, salvo il fatto che, in quanto nemici dei russi, anche i wahhabiti possono diventare degli alleati). Non meraviglia che nelle repubbliche vicine sia andato crescendo il timore dei ceceni in quanto tali, e che tra i ceceni stessi sia andata crescendo l’esasperazione per un modo di vivere sempre più tremendo e senza futuro. Non meraviglia che questo cocktail infernale abbia prodotto profughi, che la gente fugga ora davanti alle bombe e che pochi vogliano accoglierla.

La strada che da Grozny porta a Nazran, in Inguscetia, è affollata di profughi nei dieci chilometri prima e dopo la frontiera. Profughi sulla strada, in attesa di passare; e soprattutto profughi abbandonati al loro destino ai lati della strada, accampati alla bell’e meglio con qualche coperta, sperando che non faccia freddo troppo presto. Si parla ormai di oltre centomila persone: tanta gente anziana, donne, tantissimi bambini. Il flusso sta aumentando, adesso che in tutto il nord della Cecenia sono in corso battaglie terrestri e i bombardamenti si intensificano giorno per giorno: Mosca dice che sta provvedendo a questi profughi ma non è vero, non fa praticamente nulla e impedisce ad altri di fare. I piani del governo federale, espliciti, sono altri: di “liberare” una parte della repubblica e installarvi un governo amico, costituito con i vecchi deputati e leader fuggiti a Mosca nel ’96; e poi di procedere alla “distruzione definitiva dei banditi e dei terroristi”, cioè alla demolizione della Cecenia indipendente. Il tutto avendo come ipocrita obiettivo – l’ha ripetuto ancora ier l’altro Vladimir Putin – “la sicurezza dei cittadini della Federazione russa, compresi i ceceni”.

Ma non sarà un’impresa facile. I due cacciabombardieri abbattuti nei giorni scorsi sono un segnale d’allarme che il Cremlino dovrebbe tenere ben presente; è vero che oggi l’opinione pubblica russa è molto più compatta dietro chi spinge sull’acceleratore della guerra, e che al contrario i ceceni e le altre popolazioni del Caucaso sono lacerati ed esausti, per nulla entusiasti di dover combattere, persino divisi come non mai al loro interno; ma sarebbe un tragico errore pensare che ciò sia sufficiente a vincere.

–> Leggi anche il reportage di Astrit da New York dopo l’11 settembre 2001

 

truppe russe a grozny cecenia 23 novembre 2000 foto lapresse
Truppe russe a Grozny, Cecenia, 23 novembre 2000 – foto LaPresse

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