Europa

In dieci per il dopo-May: nei Tories è guerra

In dieci per il dopo-May: nei Tories è guerraBoris Johnson – Afp

Gran Bretagna Dall’«estremista» Johnson al «moderato» Hunt: tra 40 giorni si saprà chi ha vinto. Tutti brexittiani, chi con accordo e chi senza. E dall’ex sindaco di Londra arriva subito la solita proposta: sgravi fiscali insostenibili e tagli alle tasse alla minoranza dei suoi sostenitori, fatti pagare alla maggioranza delle sue vittime

Pubblicato più di 5 anni faEdizione del 11 giugno 2019

Sono dieci i candidati ufficiali alla leadership del partito conservatore e del paese: dieci teste per una corona di spine. Michael Gove, Jeremy Hunt, Sajid Javid, Matt Hancock, Rory Stewart, Boris Johnson, Dominic Raab, Esther McVey, Mark Harper e Andrea Leadsom si sono aggiudicati le sei nomination necessarie dai colleghi.

Una prima selezione avverrà con il voto di giovedì, la rosa sarà progressivamente scremata dai deputati con ballottaggi incrementali fin quando i due finalisti, resi noti il 20 giugno, non se la vedranno con gli oltre 100mila iscritti. Attorno al 20 luglio si avrà il nome. Ad attenderlo, un governo di minoranza, un parlamento frantumato e un paese diviso che il prossimo 31 ottobre dovrà lasciare l’Ue, accordo o non accordo.

Rapaci, li avevamo visti roteare per settimane e infine incombere sulla moribonda leadership di una Theresa May precipitata nel crepaccio Brexit e ivi abbandonata senza soccorsi. Mentre lei ancora trascina l’ex-premierato, per i frontbencher Tory è di nuovo il tutti contro tutti: il momento di contendersi il potere di leader del partito e del Paese (in quest’ordine), dimostrare di essere il Mosè capace di attraversare la Manica e di condurre il popolo – ma soprattutto il partito – fuori da Strasburgo, lontano da Bruxelles.

Sono due settimane che ciascun candidato, alacremente, perora se stesso. Il gruppone è sommariamente suddivisibile in «moderati», Gove, Hunt, Javid, Hancock, Stewart, ed «estremisti»: il leggendario Johnson, Raab, McVey e Leadsom. I primi sono per il negoziato con Bruxelles (quale?), gli altri per uscire senza accordo.

Ora che Gove si è mezzo bruciacchiato per aver ammesso di esser stato fedele in passato a una linea che non era quella del partito (e proprio mentre da giornalista tuonava contro l’abuso di droghe, lo rivela una sua imminente biografia), nessuno a parte il suo ex-sodale Johnson sembra avere quello che servirà più d’ogni altra cosa: il sostegno fedele dell’elettore Tory tipico, il pensionato middle class suburbano con la veranda bianca in cui ascoltare Classic Fm o Bbc Radio 2.

Ed è evidentemente proprio a lui, minoranza privilegiata che il deficit democratico vertiginoso del sistema britannico ha fatto arbitro delle sorti del Paese, che Johnson ha fatto subito la solita proposta paracula del berlusconismo perenne: (insostenibili) sgravi fiscali sul reddito a chi guadagna fino a 50mila sterline annue, i soliti tagli alle tasse alla minoranza dei suoi sostenitori fatti pagare alla maggioranza delle sue vittime.

Johnson è stato messo dai suoi comunicatori in austerity per dargli una verniciata rispettabile: niente gaffe o fesserie ai microfoni, come ai tempi spensierati della sindacatura londinese, adesso è operazione gravitas. Lo segue con distacco il ministro degli esteri (subentratogli, guarda caso) Jeremy Hunt con un’agenda soft che punta a tranquillizzare il big business e che si è guadagnato il sostegno di Amber Rudd e Penny Mordaunt, mentre Sajid Javid ha quello di Ruth Davidson, ascendente leader del partito in Scozia.

Intanto Jeremy Corbyn occhieggia le elezioni anticipate con annessa una sempre meno utopistica personale ascesa, nientemeno che a Downing Street. Il partito ha tirato un grosso sospiro di sollievo con le suppletive di Peterborough e sono aumentate le tensioni con “disfattisti” filo-secondo referendum come Emily Thornberry e il vice di Corbyn, Tom Watson. Dopo le europee avevano entrambi dato per spacciato il partito qualora non avesse apertamente appoggiato una seconda consultazione.

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