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In Congo una guerra permanente per materie prime e diamanti

In Congo una guerra permanente per materie prime e diamanti

Congo La decomposizione iniziò dalla morte di Lumumba, primo e ultimo leader eletto democraticamente

Pubblicato più di 3 anni faEdizione del 23 febbraio 2021

L’uccisione a Goma, nella regione dei Grandi Laghi congolese, dell’Ambasciatore italiano Luca Attanasio e di un militare dell’Arma dei Carabinieri in forze alla missione Onu Monusco, riaccende i riflettori su una guerra civile strisciante che da oltre un quarto di secolo insanguina quella parte del mondo. Dalla morte del dittatore Mobutu nel 1997, infatti, quello che al tempo si chiamava Zaire, oggi Repubblica democratica del Congo, ha conosciuto un costante processo di scomposizione territoriale, favorito da interessi multinazionali ben precisi, e che si servono di interposte fazioni paramilitari per continuare imperturbati a fare i loro interessi di parte sulla pelle delle popolazioni locali.

L’EPISODIO DELITTUOSO di ieri va dunque inquadrato nella cornice del cronico prolungamento di quella che venne chiamata la Prima Guerra Mondiale Africana. Scoppiata nel 1996 nella Repubblica democratica del Congo per via di spinte secessioniste proprio nella regione di Goma, innescata dall’espansionismo del piccolo Ruanda alla ricerca del suo Lebensraum, degenerò ben presto in un conflitto interstatuale che ha visto coinvolti anche Uganda, Angola, Burundi, Zimbabwe e Namibia.

L’entità degli scontri continentali, durati sino al 2004 e costati oltre quattro milioni di morti ed altrettanti di rifugiati interni, venne cinicamente ignorata dalla comunità internazionale e derubricata a diatribe inter-etniche, come nella miglior tradizione coloniale. In realtà, come sempre, trasparivano chiaramente i forti interessi economici e geopolitici internazionali, in particolare quelli delle multinazionali legate al controllo delle materie prime tra cui, il coltan, la lega di colombite e tantalite adoperata per la fabbricazione di cellulari, computer portatili, fibre ottiche, strumentazioni per l’industria aerospaziale, data la sua caratteristica di superconduttore, e degli immancabili diamanti.

MA LE FAGLIE di scomposizione del Congo vengono da ben più lontano. Si può dire che tutto comincia dalla morte di Patrice Lumumba, il primo e ultimo leader congolese eletto democraticamente nel lontano 1960, e subito destituito con un colpo di stato, a guida statunitense e belga, dall’allora tenente colonnello Joseph Desiree Mobutu, poi divento il più longevo dittatore africano col grado di Maresciallo e col nome «tradizionale» di Mobutu Sese Seko Kuku G’guendu Wa Za Banga, garante degli stessi interessi che oggi continuano a destabilizzare la parte est del Paese. Già allora, infatti, a fronte della volontà popolare a sostegno della linea politica di Lumumba, intenzionato a ridistribuire ai congolesi almeno una parte dei proventi derivati dall’estrazione mineraria, gli appetiti attorno alle materie prime strategiche del tempo, in particolare il rame ed il cobalto, scatenarono una secessione nella zona sud, il Katanga, che innescò una prima guerra civile in cui venne ucciso in un attentato aereo, preparato dai servizi segreti statunitensi e belgi, niente meno che l’allora Segretario generale dell’Onu Dag Hammarskjöld, in volo verso Kinshasa per coordinare l’intervento dei Caschi Blu in favore del Governo legittimo.

IN QUELLA STESSA TEMPERIE avvenne il tristemente famoso massacro di Kindu che l’11 novembre 1961 vide trucidati tredici aviatori italiani facenti parte del contingente dell’Operazione dell’Onu. La lunga cleptocrazia di Mobutu, 1961-2016, ha tenuto nella morsa del terrore questo gigante africano ben sette volte l’Italia, impoverendo oltremodo la popolazione e distruggendo sistematicamente ogni embrione di democrazia partecipativa. Ed è la stessa estensione del Paese, e le sue enormi ricchezze, che spiegano, tragicamente, il posto che il mondo ricco gli ha destinato nella divisione internazionale del lavoro.

LA PERMANENTE INSTABILITÀ di quella zona si chiarisce se calcoliamo che l’impronta ecologica- sistemi ibridi e nuova elettrificazione – dei Paesi europei, o in generale dei G8, ha bisogno di almeno il doppio delle aree a loro disposizione per mantenere il loro (nostro) insostenibile stile di vita che vogliamo giustamente pulito qui, ma che lì è sporco di sfruttamento e sangue. Se, infatti, l’Italia ha bisogno di due Italie, e gli Usa di due Stati Uniti e via di seguito, cosa di meglio di guerre permanenti e a bassa intensità mediatica per continuare a farci pensare che i nostri cellulari costano poco perché c’è la concorrenza tra i gestori e non per via del lavoro schiavo che ne estrae le materie prime? Ecco , allora, che il quadro si rischiara, come pure le responsabilità personali e collettive; ciò che appare lontano ed incomprensibile ci interroga ora da molto vicino e con chiarezza cristallina. L’Italia, che oggi giustamente piange la morte del suo Ambasciatore e del carabiniere in servizio, dedica alla cooperazione internazionale solo lo 0, 19% del suo Pil. Anche in questo dato ci sono molte risposte.

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