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In buona salute

In buona salutePaul Farmer, in basso il Rwinkwavu hospital in Ruanda da lui co-fondato – Ap e Getty Images

Contro le disuguaglianze Il dottor Paul Farmer è morto in Ruanda, dove creò l’«Università per l’equità della sanità globale». Fu pioniere dell’antropologia medica, a partire da Haiti si dedicò alla salute dei poveri

Pubblicato più di 2 anni faEdizione del 23 febbraio 2022

«Tantissime persone gli devono la vita». Così Rochelle Walensky, direttrice del Center for Disease Control and Prevention ha commentato la morte di Paul Farmer, medico statunitense scomparso a 62 anni nella notte di lunedì. Il suo nome dice poco al grande pubblico soprattutto in Italia. Ma Farmer è stata una figura leggendaria per la medicina, in particolar modo durante una pandemia che sta allargando le disparità sociali in tutto il mondo.

Da medico ha dedicato la vita alla salute dei poveri del mondo: l’arresto cardiaco fatale lo ha colto nel sonno nel suo alloggio di Butaro, in Ruanda, dove aveva creato l’«Università per l’equità della sanità globale». Ma oltre a curare i pazienti, Farmer è stato uno dei pionieri dell’antropologia medica, e un feroce critico del neocolonialismo implicito nelle politiche di salute pubblica. Troppo spesso, denunciava Farmer, non si tiene conto del legame tra stato di salute e condizioni economiche.

A LUI LO AVEVA INSEGNATO soprattutto Haiti, nei primi anni ‘80. All’epoca, il poco più che ventenne Farmer alternava gli esami ad Harvard con lunghi soggiorni a Cange, un villaggio nell’entroterra dell’isola di Haiti dove l’Aids era già devastante. Non è un caso se alla sindrome da immunodeficienza acquisita, in primo tempo, era stata data la denominazione di «malattia delle 4 H»: erano le iniziali di homosexuals, heroin users, haemophiliacs e, appunto, haitians. E proprio a Cange, nel 1983, Farmer fondò il primo centro medico aperto ai malati di Aids che non potevano permettersi cure private, le sole disponibili nel poverissimo stato caraibico. I contadini di Cange avevano perso tutto quando il governo aveva inondato le loro terre per creare una centrale idroelettrica.

Con loro il «dokté» parlava creolo: lo aveva imparato da ragazzino, quando la famiglia viveva in un camper e si girava per la Florida per raccogliere arance, tipico lavoro stagionale per i migranti sbarcati dalle Antille.

PARTENDO DA HAITI, nel 1987 Farmer creò “Partners in Health”, una Ong che oggi è attiva in dodici Paesi e quattro continenti. Affrontando le epidemie di Aids a Haiti, della tubercolosi nelle prigioni russe, di Ebola in Sierra Leone fino all’attuale Covid-19, Farmer ha praticato la medicina sociale sul campo, identificando allo stesso tempo gli agenti patogeni e le cause sociali delle malattie infettive che incontrava.

Gli ospedali di Partners in Health sono allo stesso tempo centri di cura, laboratori di ricerca accademica, luoghi di elaborazione politica. In cui Farmer ha unito all’esperienza del medico la passione di un affilato critico della società, finendo spesso in conflitto con le autorità: sia il governo di Haiti che quello messicano – Farmer ha frequentato a lungo le comunità zapatiste – lo hanno espulso.

D’altronde non ha senso, sosteneva il medico, curare le persone affinché tornassero alle condizioni disperate che le avevano fatte ammalare. La malattia ha radici sociali e va affrontata attraverso la struttura sociale.

All’origine delle malattie Farmer poneva la «violenza strutturale», un concetto mutuato dalla teologia della liberazione di Johan Galtung. Indicava la violenza sistematica insita in un ordine sociale, e dunque esercitata indirettamente da tutti coloro ne fanno parte.

«La distribuzione geografica dell’Aids e della tubercolosi – così come quella della schiavitù in tempi precedenti – è determinata storicamente e guidata dall’economia», aveva scritto nel 2004 in un articolo sulla rivista Current Anthropology.

L’ESPERIENZA SUL CAMPO in alcuni dei luoghi più disperati del pianeta non ha impedito a Farmer di occuparsi delle ingiustizie più vicine. Al contrario, proprio quell’esperienza gli ha permesso di intuire con larghissimo anticipo alcuni dei nodi cruciali dell’attuale pandemia di Covid-19. «Ciò che può insegnare un’epidemia di Ebola per la nostra attuale situazione – scriveva in Fever, feuds and diamonds a pandemia appena iniziata – è che le condizioni materiali, più delle differenze culturali, plasmeranno la pandemia di Covid-19. Sarà fondamentale comprendere come gli appelli al distanziamento non saranno rispettati da chi non ha la possibilità materiale di rispettarli».

MA PERSINO NEGLI USA più agiati il suo modo di praticare la medicina ha provocato conflitti, anche recentissimi. Da direttore della divisione di salute globale del Brigham and Women’s Hospital di Boston aveva lavorato affinché almeno in quell’ospedale si restituisse il diritto alla cura anche alle minoranze escluse dal servizio sanitario statunitense, basato sulle assicurazioni private. Un affronto che l’estrema destra ha sopportato fino a pochi giorni fa: il 22 gennaio una manifestazione neonazista ha preso di mira l’ospedale e i suoi medici – in particolare la dottoressa afroamericana Michelle Morse, a lungo allieva e collaboratrice di Farmer. Dal Ruanda,

Farmer aveva reagito con un articolo sul Boston Globe, in cui invitava tutti i colleghi a «praticare l’antirazzismo in medicina». Ciò che lui stava facendo, e ha continuato a fare fino alla fine.

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