In bilico tra l’orgoglio e la voglia di andarsene
Ad Arquata e nelle sue frazioni la stanchezza segna i volti. La paura per un futuro incerto e l’assenza di risposte si accompagnano al tentativo di tornare alla normalità: un bar aperto, i giochi dei bimbi tra le tende
Ad Arquata e nelle sue frazioni la stanchezza segna i volti. La paura per un futuro incerto e l’assenza di risposte si accompagnano al tentativo di tornare alla normalità: un bar aperto, i giochi dei bimbi tra le tende
La stanchezza. A due settimane dal terremoto che ha spazzato via Amatrice, Arquata del Tronto, Accumoli e varie frazioni, il popolo delle tendopoli comincia a non farcela più. Le occhiaie sono profonde: lo sciame sismico non si è mai interrotto, la terra trema di continuo e la notte si fa fatica a dormire. «Sotto le tende blu è sicuro», dicono tutti.
Qui è tutto mobile, leggero, niente può venire giù come le case di pietra dei paesi, ma la realtà dei fatti non basta per riuscire a calmare i nervi scoperti di chi ha visto la propria vita sgretolarsi alle 3 e 36 di mercoledì 24 agosto.
Nel campo di Grisciano, piccola frazione di Accumoli, tutti cercano di capire quando finirà il periodo di transizione nelle tende. La gente in fila per il pranzo ha l’aspetto sfinito di chi vorrebbe solo tornare a casa, anche se di case non ce ne sono più. Qualcuno racconta di aver avuto da amici e parenti proposte di trasferimento, almeno in via temporanea, ma alla fine prevale sempre l’orgoglio: chi ne ha avuto la possibilità già se n’è andato altrove, chi non se l’è sentita è rimasto, in attesa di una svolta che ormai somiglia ad un’utopia. Gli anziani non vogliono allontanarsi dalle loro case: non soltanto edifici in pietra, ma i simboli di quelli che sono stati i sacrifici di una vita.
A far paura sono soprattutto quelli che si aggirano nei paesi per cercare di rubare qualcosa dalle case abbandonate, anche se la sorveglianza in questo senso è ingente. Intanto, a Grisciano, i bambini giocano a pallone vicino a un bar chiuso e impacchettato dal nastro bianco e rosso dei vigili del fuoco, tra i volontari della croce rossa e quelli della protezione civile, anche loro in attesa di un pasto caldo.
Il paese è sovrastato da un cumulo di macerie, il paesaggio è una ricognizione del dolore, tra la polvere e i calcinacci. Pochi uomini in divisa a sorvegliare che nessuno entri a rubare nelle case, qualche giornalista alla ricerca dell’inquadratura giusta per i programmi del pomeriggio, e il nulla di un paese che non c’è più e non sarà mai più lo stesso.
A Pescara del Tronto il campo è blindato, la segreteria rimpalla i visitatori verso il Centro Operativo Misto, a poche centinaia di metri dalle tende. È qui che vengono decisi tutti gli aspetti organizzativi della vita provvisoria post-sisma, anche se, come precisa un funzionario della protezione civile, «ancora non siamo ufficialmente attivi».
Si attendono le classiche direttive dall’alto, ma la voce che corre è di buon auspicio: nelle prossime ore si deciderà la nuova sistemazione degli sfollati. «Naturalmente – spiegano ancora dalla protezione civile – noi cercheremo di venire incontro alle esigenze della gente del posto. Siamo qui per loro e faremo di tutto per aiutarli nel modo migliore».
Il paese, comunque, è inaccessibile. I militari sbarrano la strada: non si passa, così come è sostanzialmente impossibile arrivare a Capodacqua, piccola frazione nel piceno. Ad Arquata del Tronto, invece, quella che fino a pochi giorni fa era zona rossa, adesso è aperta al passaggio. I carabinieri stazionano qualche tornante più su, verso il Vettore, nella frazione di Piedilama, dove un posto di blocco impedisce l’accesso ai non autorizzati.
Lungo la strada, invece, il cimitero di Arquata è aperto: qui i loculi hanno resistito alla scossa, c’è soltanto qualche calcinaccio per terra e un silenzio interrotto solo a tratti dal vento che si sta facendo pungente. Il freddo e la pioggia cominciano ad essere un problema: di giorno le temperature si aggirano tra i 15 e i 20 gradi, di notte si scende pericolosamente sotto ai 10.
Sopra la tendopoli, a Borgo di Arquata, un bar ha riaperto i battenti. Il proprietario è di Roma, si è trasferito qui qualche anno fa «per trovare un po’ di tranquillità». È rimasto fermo una settimana dopo la scossa, «poi sono tornato, un po’ perché così la gente ha un posto dove andare e un po’ perché anche io ho dei conti da pagare».
Medita di andarsene, di tornare in città e cambiare vita di nuovo. Intanto serve caffè e bianchini, scambia due chiacchiere con quelli che si accomodano ai tavolini. «Ho fatto fare i controlli – dice ancora – ho un amico che ha un’impresa edile e ci ha pensato lui». All’interno non si vedono crepe, mentre fuori i calcinacci sono stati ammucchiati negli angoli. Chi vive nelle tende non parla volentieri e quando la pioggia comincia a farsi insistente tutti tornano dentro: «Almeno qui la pioggia non arriva».
Le case visibili dalla strada sono attraversate da crepe profondissime. Non ci si può entrare, ma qualcuno pare ci vada lo stesso di notte a dormire, oppure, durante il giorno, entra in fretta e furia per prendere alcune cose utili a simulare una normalità ormai irrimediabilmente perduta.
Faete è una frazione immersa tra gli alberi, ci si arriva dopo un paio di chilometri di curve e salite dal bivio di Trisungo, la “zona commerciale” di Arquata rimasta quasi intatta. Qui gli abitanti censiti sono 76, ma non è rimasto nessuno. Si sentono soltanto versi di animali provenienti da un pollaio in lontananza, mentre gli edifici di pietra e sabbia sono sventrati, martoriati dalla brutale forza della natura.
Dalla curva si vede il centro storico di Arquata: la rocca rimasta in piedi, in bilico nel vuoto, le abitazioni completamente aperte, la distesa blu delle tende sottostanti; un paese fantasma. Sui muri, però, i manifesti ricordano che fino a pochi giorni fa c’era la vita, tra un concerto di liscio e qualche spettacolo serale andato in scena durante la stagione estiva.
Ad Acquasanta Terme c’è l’ultima tendopoli prima di Ascoli Piceno, allestita in un grande parcheggio. Qui il numero di sfollati varia di giorno in giorno: una notte ci dormono in 120, quella dopo in 75. «Molte case in paese sono agibili – spiega il coordinatore del campo Emanuele Rosati – ma la gente ci viene lo stesso, perché ha troppa paura». Il lunedì, il mercoledì e il venerdì è attivo uno sportello di supporto psicologico, abbastanza frequentato.
«L’agitazione è tanta – conclude Rosati – ma è normale in queste condizioni». Intanto, un gruppo di animatori intrattiene una ventina di bambini, e nella tenda adibita a ludoteca c’è anche un cane lupo appositamente addestrato. Un ragazzo si aggira e raccoglie adesioni per un torneo di briscola in programma per la serata di sabato.
A pochi metri, il tendone delle Brigate di Solidarietà Attiva stoccano cibo e altri beni di prima necessità. Ci si dà un gran da fare, il materiale raccolto è tantissimo e bisogna organizzarsi al meglio per le prossime settimane, quando – come molti temono – l’attenzione verso questi luoghi scenderà e, di conseguenza, caleranno anche le donazioni.
Tutti vogliono andar via, in un modo o nell’altro, ma allo stesso tempo non vogliono abbandonare i luoghi in cui hanno sempre vissuto. Si aspetta e si spera che qualcuno escogiti una soluzione accettabile, anche se dalle istituzioni non arrivano notizie sull’organizzazione futura. Il tempo non passa mai, eppure è già cominciata la terza settimana dopo il disastro.
I consigli di mema
Gli articoli dall'Archivio per approfondire questo argomento