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In Algeria la protesta si sposta sui social. Anche la repressione

In Algeria la protesta si sposta sui social. Anche la repressioneUna delle ultime manifestazioni di piazza ad Algeri, lo scorso 13 marzo, prima del lockdown – Ap

Nord Africa L’hirak va in quarantena e la rete diventa la sua piazza virtuale. Il governo reagisce con multe e pesanti condanne al carcere a giornalisti e attivisti

Pubblicato più di 4 anni faEdizione del 15 aprile 2020

In Algeria, il Paese africano che registra il più alto numero di morti legate al Covid-19, con 313 decessi a ieri (1.983 i casi positivi), gli attivisti del movimento (hirak) popolare diffondono da settimane appelli a rimanere in casa.

La repressione, però, non va in quarantena. Dalla proclamazione delle prime misure di «isolamento parziale» ad Algeri, il 23 marzo, si moltiplicano i segni di una nuova stretta.

Nel mirino sembrano esserci in particolare i messaggi politici diffusi sui social network, proprio mentre questi diventano la principale piazza, seppure virtuale, del movimento.

Istigazione all’assembramento non armato, oltraggio a pubblico ufficiale, distribuzione e pubblicazione di materiale su Facebook che può costituire attentato all’unità nazionale sono i reati per i quali, giovedì scorso, l’attivista Ibrahim Daouadji è stato condannato a sei mesi di prigione e 50mila dinari (circa 360 euro) di ammenda.

Sul suo profilo Daouadji aveva denunciato pedinamenti e persecuzioni da parte delle forze dell’ordine dopo che, a fine febbraio, aveva raccontato in un video l’arresto e il violento interrogatorio subiti a margine di una manifestazione studentesca ad Algeri.

A preoccupare le ong per i diritti umani è anche la situazione del portavoce del partito di sinistra Union démocratique et sociale, Karim Tabbou. Il 23 marzo, mentre attendeva una scarcerazione considerata imminente, Tabbou è stato condannato in appello a un anno di reclusione e al pagamento di un’ammenda di 50mila dinari algerini.

La sua convocazione al tribunale di Algeri è arrivata senza che i suoi avvocati venissero informati dell’udienza e lui stesso, colto da un malore, si è dovuto allontanare dall’aula prima che la sentenza venisse pronunciata.

Sulla base di video pubblicati in rete, è stato condannato per «danni morali all’esercito». Lo stesso 23 marzo, il governo annunciava la liberazione di oltre 5mila detenuti per reati comuni per evitare che la crisi sanitaria arrivasse nelle carceri.

Questo, malgrado le misure per lo svuotamento delle prigioni, rimane un rischio concreto, osserva il giornale indipendente El Watan dopo il decesso del primo detenuto malato di Covid-19 nel carcere di El Harrach, periferia di Algeri.

Qui è recluso da ottobre Abdelouahab Fersaoui, presidente del Rassemblement action jeunesse (Raj), ong nata nel 1992 e sostenitrice del movimento dalla prima ora. Fersaoui è stato condannato ad aprile a un anno di detenzione per contenuti divulgati attraverso pagine e profili in rete.

Il giro di vite, comunque, non risparmia neanche media più tradizionali e giornalisti professionisti. Lo scorso venerdì i siti di notizie Maghreb Emergent e Radio M sono stati oscurati in tutto il paese; in un comunicato, il loro editore ha denunciato «la peggiore ondata di repressione della libertà di stampa dagli anni ’90».

La notizia arriva dopo quella, alla fine di marzo, dell’arresto di Khaled Drareni, giornalista e membro di Reporters sans frontières. Qualche giorno più tardi è stata la volta di Sofiane Merakchi, condannato a otto mesi di carcere con accuse come «fornitura di immagini delle manifestazioni del 20 settembre alla rete Al Jazeera e ad altri media stranieri».

«Il potere vuole approfittare della pandemia per domare il movimento ed evitare che, dopo la fine dell’isolamento, la crisi del petrolio e la mala gestione dell’emergenza sociale e sanitaria portino in piazza più persone di prima», esclama Djalal Mokrani, membro dell’ufficio nazionale del Raj, raggiunto telefonicamente dal manifesto e anche lui in attesa di processo.

A parlare per l’attivista algerino è la foto che pubblica, immancabilmente, sul suo profilo Facebook. Quattro ragazzi in abiti da infermiere, uno accanto all’altra, con dei cartelli attaccati sulle spalle: «Dopo la crisi Covid-19 – c’è scritto, in francese – tutti in piazza».

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