Cultura

In Africa ho scoperto la semplicità dei gesti condivisi

In Africa ho scoperto la semplicità dei gesti condivisiMauro Petroni al lavoro a Kermel

Intervista Mauro Petroni, artista italiano trasferitosi in Senegal, a Dakar, racconta il suo «Atelier Céramiques Almadies», «un crocevia di culture dove l’artigianato tradizionale incontra l’arte contemporanea»

Pubblicato 5 mesi faEdizione del 10 giugno 2024

Trasferitosi da Lucca a Dakar nel 1983, Mauro Petroni, ceramista e artigiano, definisce il suo Atelier Céramiques Almadies, «un crocevia di culture dove l’artigianato tradizionale incontra l’arte contemporanea». Le sue opere decorano luoghi simbolici della città come il mercato Kermel e la stazione dei treni ed è divenuto un pilastro della vita culturale della capitale senegalese fondando la sezione off della Biennale Dak’Art e il festival itinerante di arte contemporanea Partcours (insieme alla curatrice camerunense Koyo Kouoh).
Per celebrare i suoi quarant’anni di carriera nel paese, l’Ambasciata italiana e l’Istituto italiano di cultura gli hanno dedicato la retrospettiva Petroni40: Mauro Petroni e l’Atelier Céramiques Almadies di Dakar (visitabile fino a agosto), con un duplice focus: le sue realizzazioni per l’architettura pubblica e privata da un lato, le sue ceramiche iconiche e i contributi di altri artisti legati al suo percorso dall’altro.
In seguito agli ultimi disordini politici (il cambio di governo avvenuto con le elezioni di marzo del presidente Bassirou Diomaye Faye hanno concluso un periodo elettorale controverso, con strascichi di significative proteste e preoccupazioni per la stabilità del paese), il Ministero della cultura senegalese ha rinviato l’apertura della 15/a Biennale – era originariamente prevista per il 16 maggio – al 7 novembre prossimo, eppure la sezione off si è svolta comunque in maniera «non ufficiale» con oltre centocinquanta eventi.
In questo clima di fermento spontaneo dal basso, porgiamo a Petroni qualche domanda sul ruolo dell’arte e dell’artista in una metropoli in perenne evoluzione e rinnovamento, dove povertà, inquinamento, speculazione edilizia e retaggi coloniali duri a morire (a cui si aggiungono nuovi sfruttamenti internazionali dalla Cina alla Turchia, passando per il mondo arabo, fino a Russia e Corea), co-abitano in stridente contrasto con una vitalità creativa (nella musica, nella moda e nel design soprattutto) e una riflessione costante sulla modernità e sui suoi possibili scenari futuri.

Qual è stata la motivazione che l’ha condotto in Senegal allora e quanto è stato difficile inserirsi professionalmente in un paese che, dopo l’indipendenza, versava in instabili condizioni economiche e politiche?
Il mio trasferimento non è stato improvviso né una fuga. Negli anni Settanta e Ottanta si viaggiava molto, sulla strada, per scoprire, conoscere, confrontare. L’Africa mi affascinava, avevo attraversato il Sahara, navigato sui tre grandi fiumi Niger, Zaire, Nilo. Poi una serie di combinazioni inanellate l’una all’altra mi hanno portato in Senegal, dove non ho mai avuto problemi per esprimermi, lavorare ed essere accettato nel mondo dell’arte e della cultura. Ho impiegato molto tempo per poter armonizzare radici toscane e influenze africane. Forse sono riuscito a fare qualcosa che non importa più riconoscere e questo è già un risultato: non chiedersi più da dove viene un oggetto, non pretendere più un «colore». Resta la semplicità di un gesto condiviso che ci parla del mondo. In Senegal, si sono succeduti molti cambiamenti e hanno segnato una generazione: da un tranquillo paese sotto influenza francofona, è divenuto uno stato inquieto e agitato, che attira influenze e capitali, dove la tecnologia convive con le carrette, la fibra con i tam-tam, ma la sua instabilità politica è sotto gli occhi di tutti. Occorrerebbero pagine per raccontarlo.

Cosa può dirci di «Partcours»? Il Festival, da lei inventato dodici anni, fa non è soltanto una manifestazione artistica, ma una vera e propria esplorazione dinamica del tessuto urbano di Dakar, che unisce istituzioni culturali e spazi meno noti, estendendosi anche nei sobborghi più inaccessibili e sconosciuti al pubblico internazionale…
Partcours è una bella storia, cominciata con la consapevolezza di produrre qualcosa di utile per il contesto artistico, come un network degli spazi: cui operatori e creativi divenivano sempre più consapevoli e avevano bisogno di una piattaforma. Il pubblico ha aderito e negli anni la rassegna è cresciuta, trasformandosi in una necessità per tutti. Questo bisogno si è fatto coesione, seguito dalla cura, direi quasi affettuosa, di un piccolo gruppo di organizzatori. Sentiamo l’orgoglio di essere l’unico esempio simile in Africa. Laddove ci sono situazioni economiche più ricche e scene artistiche più importanti, come a Lagos o ad Abidjan, Dakar impone la sua dinamica comune e la sua capacità di «mettere assieme».

Molte sue opere sono andate distrutte negli anni insieme agli edifici su cui erano state collocate: se cambiamenti urbanistici sempre più rapidi e drastici rischiano di erodere costantemente la memoria, quali sono le sfide che un artista come lei affronta quotidianamente?
Purtroppo sono sfide che sembrano sempre perse… Che fare? Possiamo solo creare dei momenti di coscienza, spazi di resistenza. Per esempio, nell’ultima edizione di Partcours ci sono stati almeno cinque o sei luoghi dove sono state allestite mostre o si è parlato di questo tema della memoria e del patrimonio culturale. Eppure, nessuno aveva concordato questi accadimenti prima. Mi piace pensare che tutto nel mio percorso sia stato importante. Le realizzazioni più monumentali mi hanno evidentemente impegnato maggiormente e hanno fatto condividere momenti di storia. Ma è con lo stesso piacere che, muovendomi attraverso Dakar, ritrovo una targa o un segno colorato in quartieri meno centrali ma egualmente vivaci. Ogni impronta fa parte della mia appropriazione della città. Le mie ceramiche sono state il filo di Arianna, mi hanno permesso di «creare» una tela personale sulla città e di fermarmi, osservare e tenere aperto il dialogo.

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