Tra le delegazioni internazionali in arrivo al World Congress for Climate Justice di Milano ci sono anche i climattivsti di YASunidos, tra i promotori del referendum che in Ecuador ha bloccato le trivelle dei giganti del petrolio nel Parco Nazionale Yasunì. «È essenziale che il Nord impari e segua l’esempio del Sud: democratizzare la democrazia, lottare dal basso, fare politica nelle strade, costruire il potere popolare» ci dicono due tra i portavoce del movimento YASunidos, Pedro Bermeo Guarderas e Alejandra Santillana Ortiz.

Perché avete deciso di partecipare al Congresso climatico di Milano?

Perché ci sembra fondamentale che nel mezzo di una crisi del capitale che minaccia la vita del Pianeta, il Nord Globale ascolti le istanze e i problemi del Sud. Per noi il problema ambientale è molto più complesso e non riguarda unicamente il riscaldamento globale, ma riguarda le sue radici che si basano sul modello di produzione capitalistica, coloniale ed eurocentrico che ha messo e sta mettendo a rischio i limiti ecologici del pianeta, la riproduzione della vita umana ed animale, e che in questo momento si mostra fortemente autoritario e populista dal punto di vista governativo. La partecipazione al WCCJ ci da la possibilità di mostrare che stili di vita come quelli europei e degli Stati Uniti sono possibili solamente tramite l’attualizzazione di una divisione internazionale del lavoro basata sull’espropriazione, lo sfruttamento e il sacrificio del Sud Globale.

In che fase siamo della mobilitazione internazionale per la giustizia sociale e climatica?

Credo che le necessità dipendano dal contesto. Senza sminuire gli sforzi e i contributi di nessuno, non possiamo paragonare la situazione del movimento indigeno ecuadoriano – con Eduardo Mendúa, leader della CONAIE (la Confederazione delle nazionalità indigene dell’Ecuador), assassinato impunemente, oppure Bertha Cáceres in Honduras – con quella dell’attivista svedese Greta Thunberg, alla quale sono garantiti tutti i diritti fondamentali, compreso il diritto alla vita. Alla maggior parte di chi lotta in America Latina, in Africa o in Asia non viene garantito il diritto alla vita, non godono di tutta l’attenzione mediatica, né le loro parole e strategie hanno la stessa visibilità di quelle del Nord. Comprendere queste diverse realtà è fondamentale per capire quali sono i soggetti politici in ogni contesto e chiedersi se sia possibile un soggetto multiplo che includa la diversità e allo stesso tempo prenda in considerazione gli elementi politici comuni. E quindi, quali sono i loro bisogni e in quale fase della mobilitazione si trovano.

Raccontateci delle vostre lotte.

Facciamo parte degli YASunidos, che è un collettivo popolare ecologico, anticapitalista e antirazzista che dal 2013 lotta per la difesa dello Yasuní e di altri territori. In tutti questi anni, il collettivo ha adottato strategie che combinano azioni dirette, arte, azioni legali o mediatiche ed altre forme di organizzazione mutuale ed orizzontale. Il Yasuní è un territorio che si trova nel cuore dell’Amazzonia Ecuadoriana. È considerato dalla comunità scientifica come il luogo più biodiverso del pianeta per chilometro quadrato e inoltre è casa ancestrale degli ultimi popoli indigeni in isolamento. Questo luogo unico al mondo è assediato e sfruttato dalle compagnie petrolifere che cercano di ottenere fino all’ultima goccia del sangue del capitalismo: il petrolio. Il 20 agosto di quest’anno, dopo più di 10 anni di lotta, finalmente il movimento ecologista unito ai movimenti indigeni, studenteschi, di quartiere e a gran parte del movimento popolare organizzato, ha ottenuto una vittoria senza precedenti. È stato vinto il primo referendum nazionale promosso da un’iniziativa popolare con il 60% dei voti per lasciare il petrolio sottoterra.

Cosa vi ha insegnato questa mobilitazione?

Anzitutto che le lotte anticapitaliste sono prove di resistenza, si vincono insistendo e perseverando. La democrazia borghese difende gli interessi delle élite, solo le lotte che non si fermano e cercano altre forme di democrazia trovano giustizia. Poi che oltre alla resistenza sono necessarie organizzazione, articolazione e lotta strategica. Terzo punto, le lotte ambientaliste devono necessariamente dialogare con il resto delle lotte democratiche, popolari, indigene, contadine, femministe, del lavoro e dei migranti. La forza dell’ecologismo popolare richiede di pensare in modo integrale a un altro mondo che articola la giustizia sociale, la redistribuzione, i miglioramenti e la liberazione della classe operaia, la cura per la vita, per la natura.

Aziende, multinazionali e istituzioni si sono riempite la bocca di parole come green, sostenibilità, responsabilità. La sensazione è che moriremo capitalisti verdi.

Non bisogna solamente terminare il modello capitalista di produzione, ma anche la struttura sociale gerarchica del capitale che è presente nelle nostre menti. Dobbiamo vincere la narrazione, affidarci alla scienza, all’educazione, usare la tecnologia per creare consapevolezza socio-ecologica.
In Europa le classi popolari impoverite non possono e non vogliono pagare la transizione ecologica. Questo sta spostando molte persone a destra.
Dobbiamo sviluppare un ecologismo popolare e un internazionalismo che sia ancorato e parte della classe operaia. Non possiamo farlo senza coinvolgere la classe operaia e per questo dobbiamo capire l’attuale crisi del capitalismo e come fuoriuscire dai governi di estrema destra che sono emersi negli ultimi anni. Giudicare moralmente le classi popolari che votano a destra è sterile. Abbiamo la necessità di disseminare in maniera massiva le informazione in modo pedagogico. Se non riusciamo a comprendere che la lotta contro il sistema deve andare oltre e superare le dicotomie tra materiale e simbolico/culturale, tra lotte ecologiste e lotte operaie, tra produzione e riproduzione, tra oggettivo e soggettivo, non andremo molto distanti rispetto a questo momento di crisi.