Cultura

Immigrazione, il cinema alla ricerca di un punto di vista

Una scena da «Fuocoammare» di Gianfranco Rosi (2016)Una scena da «Fuocoammare» di Gianfranco Rosi (2016)

Immaginari Da Garrone a Sylvain George, quando i film interrogano le politiche europee

Pubblicato 12 mesi faEdizione del 3 ottobre 2023

Come raccontare le storie dei migranti a fronte delle molte parole e immagini che rischiano di essere se non a senso unico parziali? Non si tratta soltanto del «soggetto» ma prima di tutto di un punto di vista, di una prospettiva capaci di andare oltre la cronaca, di sminuzzare in una forma politica luoghi comuni, stereotipi, strumentalizzazioni. E soprattutto di restituire una voce che non sia la nostra. È questo il tentativo di Io Capitano – il film di Matteo Garrone che capovolge la narrativa comune lasciando l’occidente fuoricampo – questo però non significa senza responsabilità. Chi parla è Seydou, coi suoi sedici anni, combattente contro le atrocità e ostinato a andare avanti. Tutto ci viene restituito nel suo sguardo di ragazzo: il deserto, il carcere in Libia, una Tripoli inedita fra le diverse comunità di rifugiati fino a una meta possibile di cui non sappiamo.

Su Lampedusa ha lavorato Gianfranco Rosi in Fuocoammare (2016, Orso d’oro alla Berlinale) che costruisce la relazione dell’isola con i migranti su più piani: da una parte ci sono le abitudini degli abitanti col loro quotidiano, dall’altra un’emergenza che si è fatta (e continua a farsi) anch’essa quotidiano di sbarchi, salvataggi e morti in mare. A guidarlo è Pietro Bartolo – che proprio nel naufragio del 3 ottobre 2013 salvò una giovane donna creduta morta. Rosi segue un bambino che gioca con la fionda, e le vite e le morti su quel molo senza distogliere lo sguardo, mostrandoci in profondità ciò che spesso non si vuole vedere.

Quando Amel Alzakout, artista siriana ha deciso di raggiungere il suo compagno in Germania con gli scafisti sapeva i rischi che correva. Ma in Siria non poteva tornare. Così è salita su una barca strapiena che poco dopo è affondata, lei aveva in tasca delle telecamere waterproof che hanno continuato a riprendere: gambe, borse, vestiti fluttuanti nella paura come i pensieri. Purple Sea (su Mubi) è dire di un naufragio alla prima persona con un dispositivo che tiene a distanza il trauma della sua autrice e perciò ancora più potente nel suo denunciare la nostra responsabilità di occidente.

UN LAVORO in progress sulle politiche migratorie europee è quello di Sylvain George che da Calais, la «Jungle» dove si rifugiavano migliaia di migranti sta ora lavorando a Melilla – qui ha realizzato due film, Nuit Obscure – Feuillets Sauvages; Nuit obscure – Au revoir ici, n’importe où. In bianco e nero, con una continua reinvenzione di punti di vista e di forme, George costruisce un’epica orale e visiva di esistenze che smascherano nel loro essere le politiche euroepee. Lo stesso di ciò che ci dice Agneszka Holland, il suo Green Border è un «teatro» in cui i migranti smascherano l’Europa nella sua violenza senza democrazia.

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