È stata l’Etiopia la protagonista della sezione «Destinazione» del Trento Film Festival. La settantunesima edizione della storica manifestazione cinematografica e non solo, votata a portare in primo piano la montagna attraverso una sua rappresentazione sempre più vasta e plurale – terminerà questa sera con appendice domani dedicata alla replica dei film premiati – ha scelto il Paese etiope come ospite d’onore, continuando così a esplorare il continente africano (l’anno scorso il focus si era concentrato sul Marocco).

COMPOSTA di tredici titoli, cortometraggi e lungometraggi realizzati sia da cineasti etiopi sia europei, «Destinazione… Etiopia» ha coperto un periodo che va dal 2015 al 2022. Il 2015 è l’anno di Lamb, riuscita opera d’esordio di Yared Zeleke – con protagonista un bambino fin da piccolo chiamato a confrontarsi con esperienze di resistenza alle ostilità – nonché primo film etiope presentato al festival di Cannes. Il 2022 è l’anno di Katanga Nation, firmato dal regista di Addis Abeba Beza Hailu Lemma e da Hiwot Admasu Getaneh, anche lei originaria della capitale dell’Etiopia. In poco meno di mezz’ora, la coppia di cineasti costruisce un efficace ritratto di un quartiere di Addis Abeba, Katanga, che, come dicono le persone che lo abitano e frequentano, accoglie tutti, anche per una notte, nell’ostello ricavato in quello slum dove tutto è ammassato.

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«Faya Dayi», i sogni di un’Etiopia narrata nell’incanto del khatUn giovane venditore ambulante, cui la polizia confisca la merce trovandosi costretto a ricominciare da zero, funge da personaggio principale all’interno di un lavoro corale che, con sguardo semplice e empatico, descrive tanto il continuo viavai senza orario che si manifesta a Katanga quanto, come controcampo, un altro tipo temporale di viavai, quello di chi si muove nella parte moderna della città dominata da grattacieli, strade ampie, traffico. Katanga potrebbe venire spazzato via dai cambiamenti urbanistici, e con esso sparirebbe una rete di protezione e solidarietà informale e orizzontale.

«My Love Ethiopia»

TRA IL 2016 e il 2021 si collocano gli altri film. E uno di questi, Rift Finfinnee (2020), del tedesco Daniel Kötter, dialoga bene con Katanga Nation. Nella durata del lungometraggio, anche Rift Finfinnee offre una riflessione sulle mutazioni di una metropoli, su una sua espansione sempre più estesa che erode spazi agricoli togliendo terra per la costruzione di nuovi quartieri peggiorando in questo modo anche gli equilibri e le condizioni ambientali. A differenza di Katanga Nation, che fin da subito ci immerge in quel quartiere-set, Rift Finfinnee lascia inizialmente la capitale fuori campo e sullo sfondo prima di avvicinarla progressivamente entrando nel quartiere abitato da gente povera dove «solo gli investitori traggono profitti», afferma una persona. Kötter compie un lavoro di esplorazione lenta, affida larga parte del film ad ampi totali che in seguito si fanno più ravvicinati restringendo la visuale fino a entrare nelle abitazioni, ma sempre con la panoramica quasi impercettibile come segno distintivo.

SI AFFIDA all’animazione Gabrielle Tesfaye, artista interdisciplinare di padre etiope e madre giamaicana che si occupa di pittura, cinema, marionette, installazioni interattive e la cui ricerca è radicata nella diaspora africana. My Love Ethiopia (2020) in quindici minuti è un cantico alla e della resistenza contro l’oppressione (nello specifico, la tirannia politica che colpì il Paese negli anni Settanta provocando un enorme esodo di persone che cercarono rifugio altrove), un mosaico visivo e musicale che comincia con immagini dal vero, si apre a un’animazione dai tratti armoniosi e seducenti che, a sua volta, ospita inserti di materiali d’archivio di quel decennio, a tutto schermo o «trasmessi» da uno specchio-medaglione nel quale si riflette anche il volto della ragazza protagonista separata dalla famiglia, in fuga, accompagnata dall’arpa che suona «transitando» nelle immagini, fino a un deserto stellato e infine «sulle nuvole», mentre il disegno traccia mappe geografiche che spingono il viaggio oltre l’Etiopia verso Sudan e Egitto, sempre avendo ben presente «la mia amata Etiopia», corpo e terra che Tesfaye rende concreto in ogni inquadratura così come i suoi abitanti, un’umanità che la regista coglie e restituisce con piccoli tocchi, costruendo e alternando o mettendo in sovrimpressione disegno animato e lampi di scene con corpi reali, come a creare delle cesellate miniature e «macchiando» le immagini di cromatismi rossi, arancioni, neri, grigi, azzurri, ocra nel portare sullo schermo una storia realmente accaduta e re-inventata con notevole fantasia visiva.