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Il «varco negoziale» resta difficile. Eppur si muove

Il «varco negoziale» resta difficile. Eppur si muove

Guerra ucraìna Ora parlano gli uomini in uniforme. Prima i russi, con il laconico, drammatico sketch per telecamere in cui il comandante Surovkin e il ministro della difesa Shoigu hanno annunciato il ritiro da Kherson

Pubblicato circa 2 anni faEdizione del 11 novembre 2022

Ora parlano gli uomini in uniforme. Prima i russi, con il laconico, drammatico sketch per telecamere in cui il comandante Surovkin e il ministro della difesa Shoigu hanno annunciato il ritiro da Kherson.
«Per meglio tenere la linea del Dniepr» (Dnipro). Poi il capo di stato maggiore Usa, Mark Milley, che davanti al New York Economic Club ha sottolineato gli ingenti costi umani sostenuti da entrambi i combattenti (stimati in oltre centomila fra morti e feriti «per parte»), che mettono ormai in dubbio l’idea stessa di «vittoria militare», per poi auspicare una via politica, un «varco negoziale». È presto per parlare di svolta. Permane lo scetticismo dell’intelligence militare sul terreno, scetticismo condiviso in ambienti atlantici. Ripiegamenti e ritirate sono operazioni complesse. In questo caso coinvolgono almeno otto punti di raccolta e attraversamento di militari e civili via ferry, perché i ponti sono stati fatti saltare.

Si tratta di movimenti che espongono vulnerabilità, creano opportunità e saldano conti: spesso lasciano scie di sangue che possono a loro volta diventare tornanti della guerra, innescare nuove operazioni e nuove fasi. Gli ucraini attendono, hanno battaglioni oltre le linee ma ancora non muovono le truppe dentro Kherson. Il governatore imposto dal Cremlino è morto in un opportuno incidente stradale, dopo che la bandiera russa è stata ammainata. I residenti di Stanislav, nei paraggi, hanno innalzato lo stendardo ucraino.

Attraverso la nebbia della guerra, tuttavia, prende corpo l’impressione che qualcosa si muova. Ci sono state le elezioni di midterm americane, che hanno sostanzialmente confermato l’esistenza di un consenso bipartisan sul sostegno militare agli ucraini – per quanto il Senato sia ancora in bilico – , e poi l’annuncio del ritiro russo sulla sponda sinistra del Dniepr. Qui le forze russe hanno costruito una tripla linea di difesa (trincee, fortificazioni e bunker) che protegge, fra l’altro, il canale che rifornisce d’acqua la Crimea.

I leader politici per ora non si espongono. Biden non ha ancora chiarito la propria decisione circa se correre o meno alle prossime elezioni per la presidenza Usa. Putin fa sapere che lascerà la scena del G20 di Bali al ministro degli esteri Sergei Lavrov, che avrà dunque più spazio di manovra anche per contatti più riservati.

L’inverno sta arrivando, e serviranno alcuni giorni per capire il corso degli eventi militari lungo il Dniepr. Ma è chiaro che il campo di battaglia e la politica non sono la stessa cosa. La diplomazia statunitense afferma di avere in vista diversi colloqui con gli ucraini nelle prossime settimane. Insiste sul fatto non volere in alcun modo suggerire soluzioni, di sostenere l’integrità territoriale di Kyiv, di aver fatto tutto il possibile, assieme ai suoi partner, per convincere Mosca a rifare i suoi calcoli strategici e porre fine alla guerra immediatamente. Poi afferma che parlerà con gli ucraini anche di quando e come, in autonomia, saranno pronti ai negoziati. Come dire, pur con ogni cautela possibile, che se Kherson torna in mano ucraina, ora che gli eventi bellici hanno preso una piega non si può permettere di ignorare il segnale che arriva dal Cremlino. Una delegazione di parlamentari ucraini è attesa a Mosca in dicembre, ma nel frattempo il Pentagono dà parere negativo circa la fornitura di droni, arma a spiccata vocazione offensiva. Molto più plausibile che gli sforzi militari si concentrino sul migliorare le difese ucraine rispetto a missili e droni russi, che in queste ore intensificano gli attacchi sulle infrastrutture civili.

Sull’Occidente incombono venti di recessione, ed è possibile che una parte della partita diplomatica passi per l’Europa. Già Lavrov e la portavoce Zakharova, attraverso la Tass, accennano ad una disponibile a parlare con l’Unione Europea di proposte che riflettano la situazione sul campo e abbiano «un valore aggiunto per Mosca».

Al di là della formulazione piuttosto irricevibile da chi ha subito la distruzione di un’invasione, è bene essere chiari: il Cremlino non ha mai creduto all’Unione Europea, intesa come entità post-sovrana, quale interlocutore strategico, ma solo alle cancellerie nazionali dei suoi principali stati membri (Berlino e Parigi). Come previsto, in vista dell’inverno Mosca cerca di consolidare il fronte, mentre, messa alla strette sul terreno, esibisce la propria capacità di poter infliggere ancora danni enormi. L’Europa continentale, capeggiata dal presidente Macron, ha dato un segnale importante, settimane fa, nel mediare la crisi fra Azerbaijan e Armenia. L’Europa che può battere un colpo oggi non è, evidentemente, l’Europa a trazione polacca dei conservatori nazional-sovranisti, con cui si conferma in sintonia la guida atlantista e non europeista del governo Meloni. Arrivati a questo punto, è molto difficile credere alla volontà di pace di Putin, ma è innegabile che questa fase può aprire una finestra di opportunità, dopo nove mesi di escalation che non promettono nulla di buono per i mesi a venire. Nessuno ha il controllo degli eventi, ma storicamente non esiste un conflitto armato che, protraendosi, non si riproduca ingrandendosi, alimentando un’escalation per intensità ed estensione: è necessario non lasciare nessuna strada intentata, ostruire il terreno delle offensive di primavera.

* Autore del saggio «Frontiera Ucraina» uscito in questi giorni in libreria,(ed. i l Mulino)

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