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Il Vangelo secondo Pompeo

Il Vangelo secondo PompeoIl segretario di Stato Mike Pompeo con il presidente afghano Ashraf Ghani (23 marzo 2020) – Ap

Usa/Italia Pompeo impartisce lezioni di morale al papa. È lui, insieme a Trump, il messia del nuovo Vangelo

Pubblicato circa 4 anni faEdizione del 30 settembre 2020

Lo schiaffo del papa al Vangelo secondo Pompeo è arrivato, sonoro e puntuale. Bergoglio non riceve il segretario di stato Usa, ufficialmente perché non dà udienza ai politici impegnati in scadenze elettorali. In realtà non ha per niente gradito le critiche agli accordi tra Cina e Santa Sede, firmati due anni fa con il lavorìo diplomatico del segretario di Stato Parolin e del suo vice, quel cardinale Becciu nella bufera per investimenti a Londra e mance ai parenti. Il Vaticano è sotto attacco non soltanto per gli investimenti di un porporato.

Una settimana fa, alla vigilia della scadenza dell’accordo Cina-Vaticano sulla nomina condivisa dei vescovi, Pompeo ammoniva il papa sul periodico conservatore First Things: «La Santa Sede ha raggiunto un accordo con il partito comunista cinese nella speranza di aiutare i cattolici in Cina ma l’abuso sui fedeli è peggiorato. Il Vaticano metterebbe in pericolo la sua autorità morale se lo rinnovasse».

Insomma Pompeo impartisce lezioni di morale al papa. È lui, insieme a Trump, il messia del nuovo Vangelo. La sua stretta di mano ai Talebani per fare la pace in Afghanistan, dopo 19 anni di guerra Usa, deve avergli dato un’iniezione di ardore fondamentalista. Come se già non gli bastasse il fondamentalismo militante degli evangelisti americani, grandi elettori di Trump e quello dei partiti e dei coloni israeliani alleati di Netanyahu. C’è una sorta di grande alleanza geopolitica che ha portato gli Usa a mediare una pace tra Israele e monarchie assolute come gli Emirati e il Bahrain ma che rende i suoi componenti intolleranti verso il papa.

Deve sentirsi un paladino della morale questo signore, di origini abruzzesi come Madonna, che con Trump ha cominciato l’anno, il 3 gennaio, vantandosi di avere fatto assassinare il generale iraniano Qassem Soleimani all’aereoporto di Baghdad. Ma il papa ai suoi occhi è un birichino: si è opposto nel 2015, ai tempi di Obama, ai bombardamenti sulla Siria – come Wojtyla si era opposto all’attacco all’Iraq nel 2003 – accusando i commercianti di armi e le potenze che fomentano le guerre. Le guerre americane, dice uno studio della Brown University, hanno fatto in 20 anni 37 milioni di profughi: ma per Pompeo è irrilevante.

E soprattutto, in tempi assai più recenti, il pontefice è rimasto silenzioso, come la diplomazia vaticana, sugli «accordi Abramo» tra Tel Aviv, Abu Dhabi e Manama. Ma come? Gli Stati uniti di Trump forgiano una nuova «Nato araba» a trazione israeliana in Medio Oriente e la Santa Sede nulla dice? Se è vero che la notizia è stata trattata dai media vaticani, questo silenzio ufficiale è straordinario: nei casi precedenti, sia per gli accordi di Oslo del 1993 che per il trattato di Camp David del 1978, il Vaticano aveva subito espresso il suo consenso e ricevuto i capi di Stato coinvolti. Due possono essere le ragioni del silenzio papale, una politica, l’altra diplomatica. Il papa non si è espresso per evitare di dare un appoggio esplicito a Trump in campagna elettorale e per non sostenere la leadership di Netanyahu in Israele. In realtà sappiamo da Biden che anche se Trump va via gli accordi di Abramo restano.

La seconda ragione è probabilmente la principale: l’Autorità Palestinese lo considera un «tradimento» dei Paesi arabi che lo hanno accettato, perciò ha abbandonato la presidenza della Lega Araba. Un tradimento di Emirati e Bahrain ma anche dell’Egitto di al Sisi e dell’Arabia Saudita. Considerando che la Palestina, terra di Betlemme (e Gerusalemme), è ancora il principale interlocutore del Vaticano in Medio Oriente, si capisce la posizione della Santa Sede. Ma forse il papa per Washington ha una colpa ancora maggiore: quella di considerare Israele una potenza occupante e di essere ancora favorevole alla soluzione «due popoli, due Stati». Papa Francesco non può piacere a Washington e in generale alla grande alleanza transatlantico-arabo-israeliana. Inoltre insiste – come ha fatto nel discorso all’Onu e nella prossima enciclica «Fratelli tutti» – a criticare il capitalismo esasperato. Nella Gran Bretagna di Boris Johnson, che ha bandito i riferimenti all’anticapitalismo dai programmi scolastici, il pontefice rischia la censura.

Se il Vangelo secondo Pompeo non sfonda in Vaticano, fa breccia da noi. I 5S di Di Maio, incoraggiati dal Pd e dal premier «Giuseppi» Conte, sono ormai più atlantisti dei vecchi democristiani. Con Pompeo faranno i pesci in barile su Huawei e il 5G con i cinesi, rimandando alle decisioni europee. Ma sul resto fanno buon viso. Su suggerimento di Washington tra un po’ torniamo amici di Erdogan che si oppone alla Russia di Putin in Libia, in Siria e nel Nagorno Karabakh. È la democrazia illiberale che avanza, spiegava ieri sul manifesto Tommaso Di Francesco. Ma chi lo dice agli italiani che siamo stretti alleati del Sultano, massacratore dei curdi e dell’opposizione? Forse ci penserà il papa.

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