Il tribunale di Ragusa libera la Sea-Watch 5. Il decreto Piantedosi sempre più a fondo
Mediterraneo Terzo pronunciamento cautelare che smentisce le ricostruzioni delle autorità italiane e la legittimità dei fermi amministrativi
Mediterraneo Terzo pronunciamento cautelare che smentisce le ricostruzioni delle autorità italiane e la legittimità dei fermi amministrativi
Il tribunale di Ragusa ha sospeso il fermo della Sea-Watch 5. Ieri, alla vigilia del termine di 20 giorni di detenzione amministrativa disposti sulla base del decreto Piantedosi, il giudice Giovanni Giampiccolo ha liberato la nave umanitaria. Il provvedimento arriva dopo quelli analoghi di Brindisi e Crotone, andando a consolidare una giurisprudenza contraria al decreto 1/2023: ogni volta che si esprime un tribunale quella norma viene sconfessata.
A uscire sconfessate sono anche le autorità che si prestano a firmare i verbali di fermo sulla base di dubbie ricostruzioni, spesso mancanti di prove documentali. In questo caso si tratta della squadra mobile di Ragusa, della capitaneria di porto di Pozzallo e della guardia di finanza dello stesso comune siciliano. Hanno scritto che nel corso delle operazione del 6 marzo la Sea-Watch 5 non ha rispettato le indicazioni fornite dal centro per il soccorso marittimo competente per l’area, cioè quello di Tripoli, e che le modalità del salvataggio non avevano rispettato le indicazioni di quell’autorità. Non solo: siccome non si è coordinata con il pattugliatore libico Fezzan la Sea-Watch 5 avrebbe «contribuito a creare situazioni di pericolo durante le operazioni Sar» e la sua presenza avrebbe costretto la motovedetta a mantenere «le distanze per evitare di generare disordini con il rischio che i migranti si gettassero in mare».
Non è però chiaro su quale base le autorità italiane abbiano realizzato tale ricostruzione, anche perché in sede di udienza si sono rifiutate di fornire le prove a sostegno della loro tesi. L’Ong aveva contestato integralmente questa ricostruzione ma davanti al tribunale ha portato gli elementi per dimostrare la propria versione. E infatti il giudice le ha dato ragione scrivendo che all’esito del primo contraddittorio, in forma scritta in attesa dell’udienza di merito, «l’illecito non risulta integrato; non è emerso quali indicazioni il centro per il soccorso marittimo avrebbe dato alla SW5, che quest’ultima non avrebbe rispettato».
Dagli accertamenti dell’autorità giudiziaria viene fuori soltanto che la Fezzan ha chiesto alla nave Ong di cambiare rotta senza fornire alcun motivo e ha continuato a farlo nonostante il capitano avesse denunciato il rischio di collisione con un’altra imbarcazione. Sea-Watch, inoltre, aveva avvisato i libici dell’inizio delle operazioni di soccorso senza ricevere indicazioni contrarie, anche perché quelli erano impegnati contemporaneamente in un altro intervento.
L’ordinanza rileva poi l’illogicità delle accuse mosse alla Ong: da un lato viene contestato di aver creato un pericolo per le modalità di soccorso, dall’altro si dice che a causa della presenza della nave la motovedetta di Tripoli è dovuta restare lontana per evitare di creare pericoli. Dunque, deduce il giudice, non possono essere sorti dei rischi e non si può applicare la lettera f del decreto che punisce simili condotte.
Il salvataggio che riguarda questa vicenda fu particolarmente tragico perché delle 56 persone portate a bordo della Sea-Watch 5 cinque erano in condizioni di salute ritenute gravi. Una di loro, un ragazzo di 17 anni, è morto due ore dopo la prima richiesta di evacuazione medica d’urgenza avanzata dal ponte di comando a tutte le autorità marittime competenti. Anche in questo caso le ricostruzioni tra l’Italia e l’Ong divergono: la prima dice che la nave doveva andare in Tunisia, la seconda che i tunisini avevano negato qualsiasi responsabilità. Su questa successiva fase dell’operazione il tribunale non si è pronunciato perché esula dalle contestazioni dell’illecito amministrativo. Non si può escludere che si apra invece un procedimento penale dal momento che una persona ha perso la vita.
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