Il Tevere, gli zingari e lo stabilimento Gilda
Lungo gli argini /4 Quando negli anni Cinquanta Carlo Emilio Gadda si aggirava sulle sue sponde per scrivere un documentario commissionato dalla Rai
Lungo gli argini /4 Quando negli anni Cinquanta Carlo Emilio Gadda si aggirava sulle sue sponde per scrivere un documentario commissionato dalla Rai
La lunga fettuccia d’acqua che quasi a fil di piombo attraversa il centro Italia, il Tevere, non è uno spazio omogeneo. Ha una testa e una coda, come un lucertolone senza San Giorgio né pulzella. Si può dire che ci sono due Tevere. Il Biondo, quello ch’è tutt’uno con Roma, va dalla città dei morti (Prima Porta) ai fritti di pesce delle Fiumare (Ostia-Fiumicino), cioè alla foce. Tutto è concentrato in meno di 40 km, genti, storia, monumenti, città vive e sepolte, svaghi, sport e cineforum, arte e commercio; che si sappia, lo guardano da almeno 2700 anni. Poi c’è un altro fiume, fatto dei rimanenti 370 km, che appartiene a un altro regno e a un’altra categoria dell’immaginazione, e semplicemente è il Tevere. Una lunga, placida striscia di curve che ha a che fare con l’agricoltura e l’industria energetica ma che certo non ha ricevuto la stessa attenzione.
COME TUTTI I FIUMI che si rispettino, anche il Tevere condivide la sua identità coi suoi affluenti: il Chiascio-Topino, il Paglia, il Nera-Velino, che da solo quasi ne raddoppia il flusso («Tevere non sarebbe Tevere se Nera non gli desse da bèvere»), e infine l’Aniene, per non dire che i più noti. Un reticolo idrico essenziale nell’economia delle diverse regioni che attraversa. Forse pure per questo il Tevere diventa completamente il Tevere solo dopo il suo ultimo affluente.
Anche Carlo Emilio Gadda nel predisporre l’ordine di ripresa per un documentario sul Tevere, scritto per la Rai intorno al 1955, aveva fatto questo taglio: la parte urbana del fiume iniziava infatti lì dove vi confluisce l’Aniene. Insomma, dalla sorgente alle propaggini della città e da lì alla foce. Il regista di quel documentario, che poi fu realizzato e trasmesso nel 1958 qual parte di un ciclo dedicato ai grandi fiumi d’Europa, fu Giuliano Tomei, che s’era fatto una certa esperienza nella documentaristica geografica, e la voce fu prestata da Arnoldo Foà. Il tutto non arrivava a 30 minuti: un’impresa riuscire a materializzare quel serpentone.
Sembra che Gadda avesse lavorato molto per raccogliere il materiale necessario al film, e il congiuntivo è d’obbligo perché in realtà la notizia arriva in forma di lamentazione quando il regista gli presentò un filmato prodotto con molta autonomia, almeno così sembrò allo scrittore che vide nel suo lavoro d’archivio solo fatica sprecata. Il suo metodo fu quello di radunare l’eccellenza monumentale che era sorta in prossimità del corso d’acqua, quale segno rimarchevole (ma non meno pedante) dell’attività antropica sul territorio; e spesso questa prossimità si allargava tanto da comprendere città come Gubbio e Assisi, che poi giustamente nel filmato scomparvero. L’elenco delle riprese, scarsamente sceneggiate, s’accompagna a 305 fotografie: «il suo corso è tuttavia ricco di aspetti, taluni umili e agresti, taluni drammatici e torbidi: documentare subito con foto 15-16-17 e con foto 18-19-20 tratte dalla collezione disponibile a mano del regista».
NULLA SI SA di queste foto e non possiamo proprio immaginare cosa rappresentassero il drammatico e il torbido (cascate, rapide, mulinelli, specchi paludosi, acque limacciose?) né cosa l’umile e l’agreste (campi e armenti su placida sponda, mulini di pietra, ponti di barche?).
Quel lavoro di preparazione al girato, si fece inutile mentre si faceva perché si interrompe bruscamente sull’isola Tiberina. Evidentemente Tomei prese in collo la macchina e andò a filmare cose da trovare direttamente sui luoghi. E come si vedrà, tutto di guadagnato.
FATTO STA che Gadda fu incaricato (per 100mila lire, circa 1500 euro odierni, certo non una cifra considerevole) di aggiungere il parlato a quelle riprese. Rigoroso, come sempre in fatto di linguaggio, Gadda crea la sonorità tipica della voce documentaristica: una sintassi perentoria, in cui domina un lessico che non cede agli aggettivi se non quando il racconto si vuol fare parodisticamente idillico; frasi brevi, paratassi; un racconto allineato all’apparire delle immagini; un insieme informativo essenziale, qualche nota erudita ma solo davanti alla pienezza dell’immagine filmica. Qui finalmente il linguaggio sembra aver trovato un referente prossimo, concreto, fatto di sequenze di immagini, dove la parola può inserirsi nell’evidenza del racconto e amalgamarsi con il significato visivo. E naturalmente, qui e là, scherzare, fare ironia, prendere in giro le cartoline e i luoghi comuni, riaffermandoli.
IL BELLO È CHE SI TROVANO situazioni non previste nell’elenco delle riprese, che fanno brillare quella sorniona curiosità gaddiana per il brulichio universale. Come quando la troupe incontra una gruppo di zingari che abita e viaggia le vie che costeggiano il fiume («Gli zingari frequentano le rive si tengono al fresco lo zingaro sbarda il cavallo»). Spesso è il lavoro umano a fermare le immagini. Ora senti il tono dell’ingegnere, che pare far eco alle pagine di qualche anno prima scritte per Le Meraviglie d’Italia e Gli anni, una delle più commoventi cronache sullo stato materiale della penisola; e allora ti torna in mente quel suo programma di educazione linguistica sui mestieri e sulle tecniche, che fu così poco fortunato e riconosciuto; ti viene anche in mente che Gli anni inizia con Il viaggio delle acque, che però quella volta impegnava fiumi alpini, tipo il Brenta, il Sile, il Piave: «Fredde polle: e lo specchio di quel subito raduno era coronato da una prodigiosa vegetazione nenufàrica, d’un verde folto e lustro, incupito da solitudine».
ANCHE QUI SUL TEVERE finalmente l’occhio di Gadda indugia su quella materia compatta e sibillina, pronta a mischiarsi senza mai perdere il filo. Le cose degli uomini accanto al fiume, come un complesso sistema natura-cultura, fatto anche di sfruttamento e di colonizzazione. Le città intermedie, Perugia, Todi, e finalmente accanto alle vestigia della civiltà antica, man mano che il fiume entra nell’Urbe, sfilano anche i palazzoni della speculazione edilizia, le strutture portuali vecchie e nuove, gli stabilimenti balneari («L’elegante balneario dei circolo canottieri una stillante naiade: emersa appena dall’acqua lo stabilimento Gilda non è dei più chiassosi e poi, chi lo voglia, può rimaner vestito anche tutta la giornata. Anche il 31 luglio»), la sfilata dei ponti gioielli storici e capolavori moderni, le zattere e le case sull’acqua, i segni evidenti di una recente bonifica, i pescherecci e le bettoline, le baracche dei pescatori e case genialmente abusive («Codesto vecchio tram in disarmo è il villino di un tranviere a riposo, rilevato per venticinquemila»), i casotti per la fritturina, qualche nave all’orizzonte, la bocca che tutto espelle: ormai il viaggio delle acque è finito.
Era il 1958, e se ora torniamo indietro dalla foce fino alla sua sorgente («Il Tevere nasce ufficialmente in Romagna»), un percorso quasi tutto autostradale da cui il fiume solo si intravede, quante cose dovremmo aggiungere a questo film? Forse l’Idroscalo di Ostia, dove Pier Paolo Pasolini fu ucciso la notte del 2 novembre 1975.
SEMBRA che Gadda gli avesse chiesto qualche consiglio per il documentario, evidentemente perché in Ragazzi di vita i suoi giovani spietati giravano sempre dentro e intorno ai fiumi romani, qualche volta ci morivano. Dovremmo registrare qualche intervento effimero sui grandi argini umbertini, come i murales di William Kentridge nel 2016. Uscendo dalla città ricordare l’istituzione delle Riserve fluviali di Nazzano e di Alviano, quindi aggiungervi qualche diga, magari quella che forma il grande lago di Corbara, vicino a Orvieto, che sarebbe stata costruita solo nel 1962 e sulle cui sponde c’è anche il ristorante extralusso Casa Vissani.
Infine, già ormai vicini alla sorgente, bisognerebbe aggiungere l’«Archivio dei Diari» di Pieve Santo Stefano, fondato da Saverio Tutino nel 1984, un luogo dove ci si prende cura della scrittura memorialistica, diaristica e autobiografica, un posto che avrebbe scatenato il Gadda lettore, sempre così intrigato dei linguaggio non letterari.
Il fiume cambia e bisogna trovare altre parole per dirlo ma anche per riconoscerlo: cambia e rimane sempre lo stesso fiume, col suo borbottio e i suoi silenzi, per lo più nascosto agli sguardi e per i più volenterosi da scoprire.
(I testi del documentario «Il Tevere» sono stati raccolti tra gli «Scritti postumi» delle Opere di Carlo Emilio Gadda, V, a cura di D. Isella, Garzanti, 1993, pp. 1097-1131).
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