Il terzo voto è un altro flop, tutto può ancora succedere
Brexit Il 29 marzo doveva essere il giorno fatidico, ma è solo un altro schiaffo per Theresa May: l’accordo non passa, ma questa volta con uno scarto di 58 deputati
Brexit Il 29 marzo doveva essere il giorno fatidico, ma è solo un altro schiaffo per Theresa May: l’accordo non passa, ma questa volta con uno scarto di 58 deputati
Come volevasi, l’atteso e disatteso sequel della trilogia di Theresa May, Voto Significativo 3, è stato un flop come i precedenti. In una giornata assolata e tuttavia plumbea, complice anche il fatto che proprio ieri cadeva la scadenza originale fissata dalla premier per l’uscita dall’Ue (ai bei tempi, quando ancora ripeteva cibernetica «Brexit significa Brexit»), la camera degli imputati ha rigettato per la terza volta l’accordo. Non uno sganassone come i precedenti, ma pur sempre un’inequivoca sberla, 58 voti di scarto.
E mentre dentro Westminster l’allegoria del Caos piantava la sua bandiera nel nodoso rovere degli scranni, fuori le indomite coorti dei nazionalisti del leave, imbandierati nell’Union Jack, facevano sentire il loro peso di maggioranza sediziosa in attesa di pascersi dell’eloquente sguaiataggine di Nigel Farage. In migliaia. C’erano anche molti remainer, ma il loro giorno era stato sabato scorso.
THERESA MAY. A poco le è servito scindere le quasi seicento pagine dell’accordo sul ritiro strettamente inteso (con valore legale) dalle poche decine di pagine della «dichiarazione politica» (di tale valore prive), ovvero il canovaccio dei futuri rapporti commerciali fra Uk e Ue.
Scissione cui era ricorsa pur di aggirare i divieti dello speaker di tornare a prendere per sfinimento l’aula chiamandola a votare su una mozione già due volte bocciata e nel tentativo disperato di blandire i refrattari, lasciandogli aperti dei margini di ridiscussione di tale futuro e ottenerne così l’appoggio.
E a nulla le è servito promettere le proprie dimissioni una volta portato a termine lo straziante compito, dimostrando ancora una volta di non capire quanto poco lei stessa conti agli occhi dei suoi stessi compagni (si fa per dire) di partito. Eppure sembrava ci fosse quasi. Doveva persuadere settantacinque dei suoi. Dei notabili brexittieri avevano cambiato idea: Dominic Raab, come anche Jacob Rees-Mogg e Boris Johnson (tutti e tre vogliono succederle, ovviamente). Ma il Dup – un partitucolo di bigotti che ha una sola ragion d’essere, continuare a fare da avamposto del colonialismo inglese in Irlanda – non lo avrebbe trangugiato mai l’accordo May: intero, dimezzato o a dadini. Idem il Labour, pur con le sue ramificate fratture interne, per non parlare del Snp: i nazionalisti scozzesi vogliono fermare Brexit a tutti i costi (hanno votato Remain al referendum, sai com’è) e ora hanno una possibilità concreta di farlo nella lunga marcia verso l’indipendenza.
Che cosa può succedere adesso? Ancora tutto. Se May avesse vinto il voto, si usciva secondo il suo accordo il 22 di maggio, sebbene non sarebbe stato certo nemmeno allora, sempre per via della divisione in due dell’accordo (i brexittieri incalliti avrebbero potuto sfruttare il dibattito sulla dichiarazione politica per far naufragare tutto verso un no deal, coraggio, insieme ce la possiamo fare). Ora, o ci si butta dal treno in corsa il 12 aprile (sempre il no deal) oppure si cercherà un’altra estensione dei termini, che obbligherebbe però a partecipare alle elezioni europee (non male per il primo Paese che decide di andarsene a tre anni dalla fatidica decisione: sotto il muso lungo, Donald Tusk di certo un po’ se la ride). Ma non è detto nemmeno questo, con Macron l’imberbe regolarmente visitato la notte dal fantasma dell’idolo De Gaulle che lo esorta a essere duro avec les Anglais. E poi non tutti temono le elezioni europee. Ad esempio, i simpaticoni dell’Independent Group, il primo vero partito-azienda (non solo in senso forzitaliota) di questo Paese, formato da defezionisti Tory e Labour. Finora registrati davvero come un’impresa, debuttano ufficialmente: si chiameranno Change Uk. Nel senso di spiccioli.
RICAPITOLANDO: la Camera ha finora respinto il no deal, ha respinto la revoca dell’articolo 50 (no Brexit) ha respinte tutte le otto opzioni intavolate da lei stessa e oggi ha respinto l’accordo May una terza volta. Corbyn? Vuole le elezioni, come i nazionalisti scozzesi e tutti quelli che amano la vita all’aria aperta. Intanto lunedì ricomincia la solfa, con altri voti indicativi, che magari fondano assieme unione doganale e secondo referendum, sempre nel tentativo di trovare una maggioranza per qualcosa, anche se il limite al voto segnato dall’Ue era ieri.
Una cosa certa la sappiamo. Theresa May ha preso più ceffoni politici degli sventurati avversari di Bud Spencer e Terence Hill, il suo accordo più coltellate di Giulio Cesare. È finito, morto, interrato e c’è un vago barlume di probabilità che lo abbia capito perfino lei.
Ah, la sterlina è calata.
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