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Il sovversivo che si è «fatto popolo» e non diventerà mai un «santino»

Il sovversivo che si è «fatto popolo» e non diventerà mai un «santino»Papa Francesco con un gruppo di ragazzi salvadoregni – Afp

San Romero d'America Una conversione al contrario lo portò a sfidare militari e oligarchi quando era in alto

Pubblicato quasi 6 anni faEdizione del 14 ottobre 2018

San Romero d’America salirà oggi sugli altari, ma non diventerà mai un “santino”, oggetto di una devozione tradizionale, con tanto di agiografia, reliquie da venerare, statue da erigere.

AL «VESCOVO FATTO POPOLO» la canonizzazione ufficiale sta pure un po’ stretta, come indicava correttamente don Enzo Mazzi, l’indimenticato animatore della Comunità di Base dell’Isolotto: si può parlare di Oscar Romero, si chiedeva, «senza vederlo interno al grembo vitale della massa povera della gente di El Salvador, generato da lei?». Non si può, rispondeva, se non «facendo torto alla sua seconda nascita», essendo l’arcivescovo vissuto «non per emergere, ma per convergere, per dare forza e voce e potere ai senza potere».

Da qui il suo invito a «non fare santo lui» ma a «fare santa tutta questa gente» e a «liberarsi e liberare da tutte le mitizzazioni e santificazioni».

Lontano dal Vaticano, la sua gente sta intanto celebrando a modo suo la canonizzazione dell’arcivescovo: tutto il Paese si è fermato per onorarne la memoria, attraverso le più diverse iniziative, culminate ieri sera con il «pellegrinaggio della luce» in direzione della Plaza Gerardo Barrios, di fronte alla cattedrale, a cui è seguita, dopo la messa, la grande festa popolare tuttora in corso, a base di musica, di canti e di balli, in attesa di seguire sul maxi schermo la cerimonia in Vaticano.

UNA CERIMONIA di cui è impossibile non cogliere un sapore di riabilitazione, dopo l’accanimento mostrato nei confronti dell’arcivescovo dalle gerarchie ecclesiastiche, gli intrighi e le meschinità dell’istituzione, persino la minaccia di toglierli l’incarico o di svuotarglielo, nominando un vescovo coadiutore con pieni poteri. Per non parlare poi di tutti gli ostacoli posti, dopo il suo martirio, al processo di canonizzazione.

Ma la santificazione ufficiale di mons. Oscar Romero racchiude anche un pericolo, quello di imbrigliare la portata dirompente della sua vita e del suo messaggio. Un tentativo di addomesticamento andato in scena anche durante la cerimonia di beatificazione nel 2015 a San Salvador, quando il cardinal Angelo Amato aveva presentato l’arcivescovo come «un sacerdote buono, un vescovo saggio, ma soprattutto un uomo virtuoso», riducendolo a un simbolo «di pace, di concordia e di fraternità» tra poveri e ricchi, oppressi e oppressori.

NESSUNO, TUTTAVIA, RIUSCIRÀ a cancellarne la memoria sovversiva. Romero, secondo le parole del prete di origine belga Rogelio Ponseele, è un caso pressoché unico nella storia della Chiesa, dove più si scala la gerarchia ecclesiastica, più si sceglie il silenzio al servizio dell’istituzione: «Con mons. Romero avvenne tutto il contrario. Fu nel momento in cui si trovava più in alto che operò il grande cambiamento. E perse il rango e perse la vita».

Un processo di conversione che viene solitamente ricondotto all’assassinio del gesuita Rutilio Grande, ucciso insieme a due contadini, un bambino e un anziano, pochi giorni dopo la sua nomina ad arcivescovo – caldeggiata dall’oligarchia proprio in virtù della sua fama di vescovo conservatore -, ma che era in realtà cominciato prima e che sarebbe maturato lungo i suoi tre anni di ministero episcopale.
Tre anni durante i quali Romero, come ha evidenziato il teologo della liberazione Jon Sobrino, si sarebbe convertito in «figura del popolo» e in suo «difensore», scagliandosi contro oligarchi e militari e persino contro il presidente degli Stati uniti.

UN VESCOVO RIBELLE mai disposto a equiparare, in nome di una falsa pace, la «violenza istituzionalizzata» – quella di una struttura sociale talmente iniqua da negare alle grandi maggioranze i diritti più elementari – con la «violenza reattiva» delle organizzazioni politico-militari. O a mettere sullo stesso piano, in nome di una falsa concordia, estrema destra e sinistra rivoluzionaria, nella convinzione che quest’ultima propugnasse una linea decisamente orientata «verso il bene del popolo».

Non senza rilevare come «alcune delle dichiarazioni e azioni antimarxiste» dei cattolici si traducessero di fatto in «un appoggio al capitalismo», responsabile, diceva, di «configurare concretamente la nostra società in un senso ingiusto e anticristiano».

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