Visioni

Il sogno di Woody

Il sogno di WoodyJesse Eisnemberg e Kristen Stewart in una scena di Cafè Society

Cannes 69 Allen inaugura fuori concorso il festival con «Café Society», un tuffo nella New York post proibizionismo dove, dietro alle immagini preziose e al glamour, si nasconde un film malinconico sulle scelte della vita. Ma il regista, a parte alcuni momenti molto belli, sembra essersi perso per strada

Pubblicato più di 8 anni faEdizione del 12 maggio 2016

Uomini d’affari, artisti, avvocati, modelle, agenti, attrici, attori, musicisti, politici, nobili e nuovi ricchi, ragazzi ebrei con il cuore infranto e qualche gangster. Il pubblico che, ieri sera, si è fatto strada sulla montè de marche, verso la Salle Lumière, per l’apertura del festival si sarà magari identificato con Café Society di Woody Allen, un film – ha detto il regista- che ha voluto immaginare «come un romanzo» (sua la voce narrante), scritto (in digitale) con la luce di Vittorio Storaro e un orecchio alle intricate saghe familiari di Isaac Bashevis Singer. Siamo nel Bronx degli anni trenta. Stretto tra due genitori che litigano spesso, un fratello maggiore con propensione per il crimine e una sorella intellettuale e protettiva, Bobby Dorfman (Jesse Eisenberg) decide di tentare la fortuna dall’altra parte degli States, dove suo zio Phil (Steve Carell) è un famoso agente hollywoodiano.

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Dai bruni e grigi invernali del Bronx, il film si tuffa in una palette di colori vivacissimi e ipersaturi : i turchesi delle piscine (la scena di una festa e stata girata in quella che fu la casa di Dolores del Rio), i verdi dei prati perfetti, gli intonaci rosati delle architetture art déco, i marroni profondi dei legni preziosi che foderano gli uffici degli studios, l’azzurro del mare… Storaro, affiancato allo scenografo abituale di Allen, Santo Loquasto, spinge l’intensità delle tinte verso la bellezza irreale di un sogno (come aveva fatto nel 1982, in modo totalmente sperimentale, in Un sogno lungo un giorno, di Francis Ford Coppola).

 

I nomi di Paul Muni, Howard Hawks, Ginger Rogers, Joel Mccrea….aleggiano nell’aria. Ma non si ha l’impressione che tutta questa bellezza sia il sogno di Woody Allen, che «dietro alle quinte» sembrava molto più ispirato in Pallottole su Broadway o Broadway Danny Rose, e che, sul cinema, ci ha dato il sublime La rosa purpurea del Cairo. La sua Hollywood emana infatti meno romanticismo di quella ricreata dai fratelli Coen in Ave Cesare, e meno fascinazione del devastante sottobosco di Mulholland Drive.

Dopo aver fatto fare a Bobby settimane di anticamera all’hotel Ali Baba, zio Phil ricorda i legami di sangue e inizia ad affidargli dei lavoretti. In più, perché si impratichisca con la città, lo mette nelle mani della sua segretaria Vonnie (Kristen Stewart, in calzini corti e sandaletti). I due iniziano con un tour di case delle star, zigzagando per Beverly Hills, ma presto finiscono in un localino messicano da poco – perché Vonnie è una ragazza con la testa sul collo e, gli spiega, quando è arrivata a Hollywood voleva fare l’attrice ma adesso quella vita non le interessa più. Sarebbe amore a prima vista, se lei non avesse già un uomo, che poi però la molla perché non ha il coraggio di lasciare la moglie.

Tecnicamente parlando – e lo conferma l’ultima scena, la più emozionante del film – Café Society è la love story tra Vonnie e Bobby. Ma Allen ci riporta spesso a New York, dove i genitori di Bobby continuano a battibeccare, suo fratello Ben mette a tacere per sempre i suoi nemici a forza di colate di cemento e sua sorella e suo cognato conversano con grande intelligenza.

Presto anche Bobby rientra a New York. Ma solo; perché Vonnie, con la quale aveva immaginato di affittare un piccolo appartamento a Greenwich Village, decide di sposare il fidanzato originale, che nel frattempo ha lasciato la consorte.  Così Bobby, che ama le fumose boite jazz della Downtown, si mette in società con il fratello poco di buono e porta una patina di rispettabilità al suo locale notturno che, da Club Hungover (letteralmente il club dei postumi della sbornia) si trasforma in Les Tropiques, un paradiso delle notti newyorkesi alla El Morocco.

In alcune interviste, Allen ha detto di amare molto la New York post proibizionismo alla cui effervescenza Café Society rende omaggio, ma questo sembra un film molto meno personale, idiosincratico, di Midnight in Paris; forse anche perché Jesse Eisenberg è un alter ego meno creativo di quanto non lo sia stato Owen Wilson. Nella lunga galleria di muse alleniane Kristen Stewart è una presenza translucida, quasi passiva, rispetto a quelle di Emma Stone o Scarlett Johannasen, per citare solo le più recenti.
Dietro alle immagini preziose e al glamour dei suoi sfondi, Cafè Society nasconde un film malinconico sulle scelte della vita, su come le cose avrebbero potuto andare diversamente…. Forse è il film che Allen voleva fare, e che – a parte alcuni momenti molto belli – si è perso per la strada.

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