Piove sulle bare, e sulle popolazioni senza casa. Solo il papa, in visita da quelle parti, non si bagnerà, qualcuno reggerà sulla sua testa un ombrello di seta bianca. Poi tornerà nel caldo delle stanze vaticane.

Anche se i feudi ecclesiastici non son più quelli di cui parla l’abate Galiani, il mezzogiorno è sempre ricco di fede, e l’accresciuta miseria e disperazione di quelle popolazioni era un’occasione pastorale da cogliere a volo. «Quelli si grattano i coglioni» – cosi ha imprecato ieri alla televisione una delle vittime di questa tragedia.

Alludeva al governanti, alle autorità, allo stato, al personaggi che sfilano con aria contrita sui luoghi del disastro, e poi tornano nel palazzo. Ma non hanno nulla da grattarsi. La loro inettitudine, il modo come hanno ridotto le strutture pubbliche, la loro mancanza di passione e di onore, si vede a occhio nudo in queste ore.

Se ci fosse una guerra, se i confini della patria, come li chiamate, fossero in pericolo, che cosa mobilitereste, cinquemila soldati e pompieri, un po’ di elicotteri e di ambulanze? Ma quanto costa l’esercito nazionale, la vostra flotta aerea, i vostri parchi automobilistici, le strutture atlantiche che hanno sede lì a due passi? Mascalzoni, forse, non inetti. Perciò non vi viene neppure in mente, per una volta almeno nella vostra carriera di politicanti, di avere uno scatto, di tentare una mobilitazione, di dedicare a questo compito uno del vostri «vertici», quelli in cui usate discutere delle vostre miserie.

O forse non potete, perché lo sfascio dell’organizzazione statale proprio voi la conoscete meglio di chiunque. Ma perché poi dovremmo aspettarci, in questa circostanza, un segnale diverso da un ministero della difesa che sforna uno scandalo all’anno? O da ras democristiani che sulle sfortune del sud hanno eretto le proprie fortune? Da gente che ha permesso, favorito, praticato perfino lo sciacallaggio in grande stile su terremoti, inondazioni, catastrofi naturali di ogni genere, dal Vajont al Belice?

Che non ha mal predisposto un piano, una legislazione d’emergenza, nulla che non lasci esposti al peggio, prima durante e dopo queste ricorrenti tragedie? Mascalzoni, forse, non inetti, per l’ovvia ragione che responsabilità e speculazione non s’accordano.

Ci dispiace per il presidente Pertini, che copre con il suo sincero rammarico l’odiosa mediocrità dei pubblici poteri. Non è e non dovrebbe ridursi come un vecchio monarca. Si comporterebbe così, se ci fosse una guerra? Si rivolga al paese, invii un messaggio al parlamento com’è nei suoi poteri, denunci l’inerzia altrui, dica di quali comportamenti, di quali impegni, di quali indirizzi, di quale riforma politica e morale c’è bisogno. L’emergenza in cui sopravvivono oggi le popolazioni colpite è l’espressione estrema di una precarietà secolare e decennale in cui vive tanta parte della società nazionale, e in cui è precipitata la repubblica.

La stampa nazionale ci risparmi i suoi trucchi. Come può la Repubblica mettere in guardia contro un nuovo Belice e subito concedere una prova d’appello, la stessa delega di sempre, a un’organizzazione politica e statale che è la stessa di allora, la stessa di sempre, se non per il marcio in più che si è accumulato sotto i nostri occhi fino a ieri? Un’organizzazione politica e statale che in queste ore, nelle regioni devastate, neppure di un’opera degna di soccorso si mostra capace, neppure della percezione della tragedia? Che vergogna predicare, o attendersi, o offrire solidarietà nazionale attorno a questo nocciolo marcito.

Sono le organizzazioni operaie del nord, saranno le pur deboli strutture democratiche di quelle regioni, è la gente comune, che cerca e cercherà di prodigarsi anche in questa circostanza, non solo per scavare, assistere, aiutare, ma per organizzare, promuovere, rivendicare, protestare, e domani combattere i corvi, risanare e possibilmente cambiare: far le veci dei pubblici poteri, anche se le forze non bastano, tanto meno in quei luoghi, per questa impresa. Far vivere una nuova democrazia è un’impresa nazionale che da troppo tempo langue e non viene neppur più tentata. Ma cosa deve succedere perché, di governo o di opposizione, che sia, la sinistra si mostri davvero e nel profondo «diversa»?