Ieri mattina, alla radio, alcuni scienziati e qualche letterato riprendevano – parlando di cani e di pozzi intorbidati – l’ormai usato argomento sulla prevedibilità dei terremoti. Qualcuno, più logico, ricordava El Asnam: il sistema marcia verso nord, ci si doveva pensare. Forse i terremoti sono prevedibili o potranno prevedersi, ma quel che è certo che matematicamente prevedibili sono gli effetti economico sociali. Tanto più se il terremoto si colloca nel triangolo Colombo, De Mita, Scarlato o, più genericamente, nella ducea dei Gava.

La previsione – sulla quale nessun bookmaker accetterebbe scommesse più che alla pari – è nitidissima davanti agli occhi di tutti gli italiani e precisa in tutti i suoi contorni. Si può cominciare – senza timore di cinismo, dal momento che il cinismo ai meridionali è stato imposto sin dalla nascita – dal racket delle sepolture delle centinaia di persone travolte nella notte e che hanno conservato un familiare, che debba rispondere del decoro familiare di fronte ai sopravvissuti. Dal racket delle sepolture si può passare a quello dei combustibili da riscaldamento, dell’acqua, delle tende, delle baracche, degli aiuti pubblici per la ricostruzione.

Come non dimenticare il Belice e come non dimenticare che molto più a nord di Avellino e di Potenza, nella centrale Ancona (quella della «settimana rossa»), il terremoto è stato l’affare del decennio, quel che ha consentito di mettere molte cucchiaiate di zucchero nell’amaro della crisi. Adesso, siamo franchi, in questo triangolo delle Bermude del nostro paese, che dai tempi di Giustino Fortunato si definisce «osso» e non «polpa», il terremoto e le migliaia di morti che alla fine si raccoglieranno già appaiono come una pubblica fortuna: accertatori, valutatori, appaltatori, costruttori, e poi tutto il popolo basso fatto di manovali, portaborse, procacciatori di pensioni; tutti hanno davanti a sé un avvenire di gloria. Sul terremoto sorgeranno fortune, poteri di controllo dei voti delle famiglie superstiti dei terremotati, equamente ripartiti per contrada o strada. A essere seri bisognerebbe dire che il terremoto ha vittoriosamente controbattuto gli effetti della crisi in quel fatale triangolo del mezzogiorno, che già dall’altro secolo è luogo di terremoti e sciagure. Il lessico locale, già ricchissimo, si arricchirà di nuovi termini: contributi a fondo perduto, prestiti graziosi, indennizzi per suoli edificati, indennizzi per perdite umane, etc.

La fantasia giuridico-assistenziale degli italiani non ha limiti. Su scala nazionale, a Roma, lontano dalle patrie dei sempiterni «ascari», egualmente prevedibili sono gli effetti benefici del terremoto. Ma insomma, sentivo dire ieri da un amico giornalista, che cosa sono i dorotei a confronto di un terremoto. E la morale finale era: suvvia gli scandali del petrolio non fanno vittime; al massimo un giornalista ricattatore. Su scala nazionale ritorna come nelle oleografie della storia patria la linea «abbracciamoci tutti di fronte alle sciagure naturali». Ieri mattina abbiamo visto in televisione Emilio Colombo tra i terremotati con lo stesso impulso di disprezzo civile con il quale siamo stati abituati a vedere re Umberto tra i terremotati di Casamicciola, o re Vittorio e la regina Elena in altre zone terremotate di questo eterno «osso» del nostro mezzogiorno. L’Italia soccombe sotto gli incontri di Teano (tanto per non allontanarci dalle zone del terremoto).

Il re, Colombo (ci sono stati anche Pertini e Forlani), le pensioni di invalidità in soprannumero, i contributi Cee per gli alberi finti di olivo, i passaggi di mano tra Carmine De Martino e Ciriaco De Mita e la solidarietà nazionale soprattutto: questo è il fondale permanente di questo ennesimo terremoto, che nell’«osso » del Sud uccide i superstiti del grande esodo degli anni ’50 e ’60, quelli che non hanno avuto la fortuna di andarsene o che hanno avuto l’opportunità di restare.

(…) Come da tempo si dice, «chiodo scaccia chiodo»: adesso, con riferimento al terremoto dei petroli e dell’Irpinia, si dirà che «terremoto scaccia terremoto». Se fossimo al livello di cinismo di Giustino Fortunato (che viene ricordato solo per aver definito «sfasciume pendulo» la Calabria, per il solo fatto che la Calabria continua a sfasciarsi) potremmo fermarci qui. Che cosa c’è di meglio, nella retorica nazional-progressista, di una diagnosi impietosa? Ma grazie a dio non teniamo a passare alla storia come i nipotini acculturati di Giustino Fortunato. E, grazie a dio, l’Italia di oggi non è più quella dei tempi di Giustino Fortunato. Proprio per questo consideriamo la diagnosi impietosa solo una vile confessione di resa. Proprio per questo contro la deriva dell’«abbracciamoci tutti» diciamo che il terremoto è un’occasione di più per dividersi e odiarsi, per distinguere tra «noi» e «gli altri» (e ciascuno può scegliere dove collocarsi). È da tanto tempo (ormai ci avviciniamo al secolo) che distinguiamo tra paese reale e paese legale. E proprio per questo pensiamo che se il «paese reale» si dispone a subire le vergogne del «paese legale», lo sconfitto, colui che abdica sarà proprio il «paese reale», del quale, cinicamente, si potrà dire che ha i reggitori che si merita. Siamo al quarto o quinto terremoto di una generazione politica: subirlo nella logica dello «stellone d’Italia» non è più ammissibile, pena il suicidio di una generazione politica. Per dire «pane al pane e vino al vino»: pena il suicidio di quel che resta della nuova sinistra, pena il suicidio del sindacato, del Psi, del Pci.

Se siamo, come siamo, in una vera condizione di emergenza, il «paese reale» deve innanzitutto respingere la falsa emergenza della omertà nazionale (Pertini in questa occasione mette in gioco tutta la sua fisionomia di presidente del «paese reale») e affermare la propria emergenza. È proprio l’angosciosa presenza dei morti, sono proprio le immagini di una condizione di vita che sembrava dimenticata, sono i nomi dei paesi che i telecronisti sbagliano a pronunciare come si trattasse di nomi di realtà ignote (ieri mattina prima che l’incolpevole radiocronista riuscisse a pronunciare esattamente il nome del paese di Baronissi ci sono voluti almeno quaranta secondi di farfugliamenti) a dirci che non siamo tutti nella stessa barca, che tra noi e gli altri c’è una differenza profonda quanto la voragine che può aprire un terremoto.

Nell’Italia di questi anni ’80 il paese reale può muoversi. È sua responsabilità morale e politica muoversi. Gli alti commissariati in Irpinia sono più che un inganno (non siamo nella Tennessee Valley e al posto di Roosevelt c’è Forlani). O i partiti di sinistra, o i sindacati, gli enti locali, le associazioni di giovani e di disoccupati prendono nelle loro mani il compito della ricostruzione, segnano un loro potere nella società, aprono un conflitto nel popolo e aprono la lotta di bonifica nel regno della camorra oppure vincerà la camorra nazionale. La ricostruzione sarà peggio delle case popolari costruite due anni fa a crollare per terremoto e risparmio di cemento. Anche il presidente della repubblica deve rendersene conto, ma soprattutto la gente del sud e anche gli operai di Torino. Nell’arido «osso» del Mezzogiorno, nell’oscena confusione dell’assistenzialismo e della borghesia di stato il terremoto ha aperto un terreno di scontro forse più avanzato della prima parte dei contratti. In gioco sono la faccia e il cuore della repubblica.