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Il silenzio dell’Egitto su Giulio Regeni. La famiglia: «Un fallimento»

Il silenzio dell’Egitto su Giulio Regeni. La famiglia: «Un fallimento»Pif, Claudio Regeni, Paola Deffendi e Alessandra Ballerini all’incontro sul libro «Giulio Fa Cose» a Milano – Ansa

Bell'affare L’atteso incontro tra procure si conclude con un nulla di fatto. «Ritirare l’ambasciatore», chiedono i genitori del ricercatore. Dieci giorni fa il primo ministro Conte prometteva: business e armi porteranno collaborazione. Stiamo militarizzando il Mediterraneo, armando uno dei suoi più brutali regimi e siamo senza verità

Pubblicato più di 4 anni faEdizione del 2 luglio 2020

La strategia «soft» del governo Conte per convincere gli egiziani a dire la verità sulla morte di Giulio Regeni ci ha impiegato appena un’ora a evaporare, vittima della sua stessa inconsistenza. Ci aveva spiegato, a noi che non vogliamo capire, che l’unico modo per ottenere collaborazione dal regime del presidente al-Sisi sono il business, le fregate Fincantieri da 1,2 miliardi di euro e poi jet e caccia e satelliti, nove, undici miliardi di euro.

È bastata una videoconferenza e il castello di carta è volato via. Ieri, a 14 mesi dalla rogatoria dell’aprile 2019 mossa dalla Procura di Roma agli inquirenti egiziani, le risposte ottenute sono zero.

La Procura generale egiziana non ha dato nessuna nuova informazione sulla sparizione forzata, la detenzione, la tortura e la morte di Giulio Regeni, avvenute tra gennaio e febbraio 2016. Si è permessa invece di chiedere ancora cosa stesse facendo Giulio, ricercatore di Cambridge, in Egitto. Così si è conclusa l’ora di videoconferenza, attesissima, tra le due procure, l’italiana e l’egiziana.

Con un nulla di fatto che rimbomba nella nota di Piazzale Clodio: il procuratore Michele Prestipino Giarritta ha detto di aver insistito per avere riscontri concreti e in tempi brevi, a partire dall’elezione del domicilio legale dei cinque membri dei servizi segreti egiziani iscritti nel registro degli indagati di Roma per sequestro, il generale Sabir Tareq, i colonnelli Usham Helmy e Ather Kamal, il maggiore Magdi Sharif e l’agente Mhamoud Najem.

Nessuna risposta. Come non ce ne sono state in merito alla richiesta di conferme sulla presenza in Kenya di uno di loro, Sharif, che nell’agosto 2017 durante un pranzo avrebbe diffuso dettagli sul rapimento. Né alla domanda sul ruolo di altri membri della Nsa, la National Security , legati a doppio filo agli indagati. È comprensibile dal punto di vista del regime: al-Sisi difende se stesso facendo scudo alla galassia di potere – esercito e servizi – che lo tiene dov’è e allo stesso tempo si mostra inflessibile agli occhi di alleati e avversari regionali.

Dal procuratore egiziano Hamada Elsawy e dal direttore della divisione cooperazione giudiziaria, Mohamed Khalaf, è giunta solo l’ennesima stantia promessa: «Il procuratore generale egiziano – si legge nella nota di Piazzale Clodio – ha ribadito la ferma volontà del suo paese e del suo ufficio di arrivare a individuare i responsabili». Delusione emerge anche dalla Farnesina, riporta l’Ansa: «Esigiamo un cambio di passo. E soprattutto esigiamo rispetto per la famiglia Regeni. La Farnesina, dopo l’incontro di oggi, trarrà le sue valutazioni».

Il silenzio segue alla consegna, appena dieci giorni fa, di quelli che gli inquirenti del Cairo hanno definito gli oggetti personali di Giulio, i suoi documenti ma anche un borsone, degli occhiali da donna, un pezzo di hashish, tra gli altri, che non erano suoi: il contenuto di quanto finsero di trovare a casa di uno dei cinque innocenti uccisi in una sparatoria il 24 marzo 2016, quasi due mesi dopo il ritrovamento del corpo di Giulio, e a cui Il Cairo tentò di dare la colpa, inutilmente. Un gesto provocatorio, oltre che di dimostrazione plastica di un depistaggio malriuscito. Affatto catalogabile nella casella «gesti di buona volontà».

Ieri la famiglia Regeni ha reagito duramente all’esito della videoconferenza: «Richiamare l’ambasciatore oggi – dicono Paola Deffendi e Claudio Regeni – Non solo per ottenere giustizia per Giulio e tutti gli altri Giuli, ma per salvare la dignità del nostro paese e di chi lo governa». «Nonostante le continue promesse non c’è stata da parte egiziana nessuna reale collaborazione. Solo depistaggi, silenzi, bugie ed estenuanti rinvii. Il tempo della pazienza e della fiducia è ormai scaduto».

Sotto questa luce va riletta oggi l’audizione del primo ministro Conte alla Commissione parlamentare d’inchiesta sulla morte di Regeni, la sera del 18 giugno. In quella sede aveva rinviato tutto all’incontro tra procure, per mostrare a tutti noi che quella vendita di armi, la più ingente della storia repubblicana, sarebbe servita a ottenere collaborazione. Perché è facendo affari, spiegava, che si riceve rispetto e ascolto.

Non è così: dall’anno dell’uccisione di Giulio l’ammontare delle autorizzazioni di vendita di armi al Cairo (che detiene ancora in carcere lo studente Patrick Zaki) è aumentato vertiginosamente, dai 7,1 milioni del 2016 agli 871,7 del 2019. In attesa del boom, enorme, doloroso, che sta per arrivare.

Stiamo militarizzando il Mediterraneo, armando uno dei più brutali regimi dell’area e siamo senza giustizia per Giulio. La strategia «soft» non funziona, basta prese in giro.

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