E adesso? In Iowa le previsioni sono state rispettate: faceva un freddo cane, sono andati a votare poco più della metà dei partecipanti ai caucus repubblicani di quattro anni fa e Trump ha distanziato i rivali di parecchie lunghezze, ottenendo più del 50% dei consensi. Un risultato che rende il groviglio politico-giudiziario attorno alla sua candidatura ancora più inestricabile. Lo aspettano cinque processi nelle prossime settimane ma quale giuria avrà il coraggio di condannarlo e quale giudice quello di mandarlo in galera, come merita?

Trump è un aspirante dittatore che vuole (e può) andare al potere per via elettorale, come Mussolini e Hitler. E la minaccia della prigione non è sufficiente a fermarlo: a quanto pare i suoi sostenitori ignorano i processi che lo riguardano.

Che sono visti come una prova della “persecuzione” a cui sarebbe sottoposto dai suoi nemici di sempre: i democratici, i giornali, le élite intellettuali e finanziarie.
Lo ha confessato lui stesso poco tempo fa, rispondendo alla domanda di un intervistatore: sì, vorrebbe fare il dittatore ma «solo per un giorno», il tempo di deportare qualche centinaio di migliaia di persone verso il Messico. Poteva sembrare una battuta da comizio ma nei giorni scorsi i suoi avvocati hanno invece formalizzato una mozione di fronte a tre giudici federali che conferma i peggiori sospetti. La sua idea dei poteri del Presidente: questi sarebbe immune da ogni procedimento giudiziario, perfino nel caso ordinasse l’assassinio di oppositori politici, se non fosse preventivamente sottoposto a impeachment e rimosso dalla sua carica.

Un’eventualità alquanto remota, visto che nessun presidente americano dal 1878 ad oggi è mai stato giudicato colpevole dal Senato (nel 1974 Nixon si dimise, non fu condannato). In altre parole il presidente degli Stati Uniti, una carica che i padri fondatori volevano efficiente ma di minore importanza rispetto al Congresso, si trasformerebbe in un monarca assoluto, con poteri di vita e di morte a sua disposizione.

È (per ora) impensabile che i giudici accettino questo stravolgimento costituzionale ma in queste settimane la Corte suprema deve occuparsi anche di un altro dei problemi nati il 6 gennaio 2021 quando Trump incitò i suoi sostenitori a marciare sul Congresso per impedire la certificazione dei voti a favore di Joe Biden: le sue azioni di quel giorno lo rendono responsabile di un’insurrezione?

La domanda non è oziosa perché un emendamento della Costituzione approvato dopo la guerra di secessione, il quattordicesimo, contiene una clausola che impedisce a chi sia colpevole di insurrezione contro il governo di ricoprire successivamente qualsiasi carica pubblica.

L’emendamento era stato ovviamente pensato per gli ex politici e generali sudisti, trattati generosamente dopo l’assassinio di Lincoln, ma non era mai stato applicato da allora. Oggi la domanda è se può essere applicato a Trump, e con quali modalità. La risposta, in Colorado e in Maine, è stata positiva, in altri Stati negativa, ora la questione è nelle mani della Corte suprema, dove peraltro sei giudici su nove sono ultraconservatori.

A questo punto è logico chiedersi come sia possibile che un politico rinviato a giudizio per ben 91 reati, tutti più o meno legati al tentativo fallito di restare al potere dopo aver perso le elezioni del 2020, possa non solo essere in corsa per la Casa Bianca ma essere praticamente certo della nomination dei repubblicani. La risposta sta nel fatto che Trump fu eletto alla presidenza nel 2016 in parte perché il pubblico detestava i democratici più di lui, un sentimento che circola anche quest’anno: Joe Biden è al minimo storico dei consensi, malgrado l’economia vada bene.

Dopo il violento assalto del 6 gennaio 2021 molti sostenitori lo avevano abbandonato e Trump sembrava un uomo che non solo aveva perso le elezioni, ma anche la testa. Sembrava inconcepibile che potesse tornare a essere un politico credibile. E invece in questi tre anni Donald Trump ha riguadagnato quasi tutto il capitale politico che aveva perso allora: nei sondaggi è tornato al di sopra di dov’era nel novembre 2020 e, se si votasse oggi, nel complesso dell’elettorato sarebbe in vantaggio del 46% contro il 44% di Joe Biden.

A favore dell’aspirante dittatore giocano anche le fratture all’interno della coalizione democratica che aveva eletto Biden nel 2020: nei sondaggi i giovani fra i 18 e i 29 anni sembrano preferire Trump a Biden 49% a 43% nelle intenzioni di voto a causa della rabbia per il sostegno incondizionato di Biden a Israele, malgrado le mezze frasi sui bombardamenti «eccessivi» o sulla necessità di una tregua. È una rottura radicale e i giovani, più ancora delle donne, sono la spina dorsale dell’elettorato democratico: se a Biden viene a mancare il loro voto la vittoria dei repubblicani è assicurata.