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Il sapore di Roma città meticcia

Il sapore di Roma città meticciaAlcuni dei cuochi migranti del progetto «In cammino...catering migrante» – Elisabetta Elia

Italia Gambia, Mauritania, Iran, Afghanistan, Perù, Palestina: i cuochi migranti sono i protagonisti di progetti di inclusione nella capitale trasformata in un’enorme cucina multietnica: «È come se il cibo percorresse la Via della Seta, dall’Oriente fino all’Italia»

Pubblicato più di 6 anni faEdizione del 3 luglio 2018

Sono venti, provengono da tutto il mondo e lavorano insieme nella stessa cucina con uno scopo: formare una start up di catering italiano internazionale. Sono i migranti forzati del progetto «In cammino… catering migrante», persone che nei loro paesi erano cuochi di grandi o piccoli ristoranti e che, una volta costretti a migrare, qui in Italia hanno portato con sé ognuno il proprio talento. Qui, dove tutto è difficile, il cibo diventa un modo per conoscere e farsi conoscere.

TUTTO PARTE da Gustamundo, il ristorante ideato da Pasquale Compagnone in cui ogni sera si esplorano i sapori di un angolo di mondo grazie alle mani esperte di un cuoco migrante.

È questo l’«ombelico del (loro) mondo», dove tutti si conoscono e le storie si intrecciano. Ed è da qui che si sviluppa e viene lanciato il progetto «In cammino», promosso dalla Congregazione delle Suore Francescane della Ssma Maria Addolorata e dall’Ascs (Agenzia Scalabriniana per la Cooperazione allo Sviluppo) con il suo programma Humilitas.

«La bellezza di questo progetto è data dall’andare oltre la semplice accoglienza: noi vogliamo inserire migranti, rifugiati e richiedenti asilo di talento all’interno di un contesto lavorativo, supportandoli fino alla completa autonomia», spiega Gaia Mormina, ideatrice e coordinatrice del progetto, che li segue per conto dell’Ascs.

Il progetto è ancora nelle sue prime fasi di vita e prevede, oltre ai corsi di cucina e pasticceria italiana, un corso di lingua italiana e una tutoraggio che supporti i venti ragazzi nelle questioni più strettamente legali ed economiche, connesse alla nascita giuridica della start up, che ufficialmente avverrà a settembre.

Gambia, Iran, Afghanistan, Mauritania, Colombia, Perù, Palestina, Pakistan non sono solo i nomi dei paesi di provenienza né tanto meno ostacoli alla comprensione reciproca, perché «ci stanno mettendo l’anima in questo progetto», assicura Pasquale, che alcuni di questi ragazzi li conosce da tanto tempo.

LA CUCINA MIGRANTE qui si trasforma anche in cucina italiana, ma non per questo esaurisce la sua forza comunicativa e unificatrice: «Non è solo cucina, ma anche integrazione e scambio: veniamo da tante nazioni diverse e stando insieme conosciamo nuove realtà», dice Lamin, giovane gambiano.

Lamin ha la passione per il cibo «dentro» e prima di tutto ama cucinare per gli amici. Lui, come gli altri, è arrivato qui grazie al suo talento, ma prima è passato da una Roma multietnica fatta di cucine migranti e meticce.

Sono tanti, infatti, i migranti che portano nella capitale le proprie pietanze e che decidono di esprimersi attraverso il cibo. Quella di Roma è una mappa fatta di sapori da tutto il mondo, un insieme di costellazioni legate da fili invisibili, in cui è il cibo a creare legami.

«Quello che mi piace di più di quello che faccio è l’aspetto relazionale: più persone conosco, meglio è». A parlare è Hanifa, donna rom della Bosnia, che fa parte del progetto «R Qubed» (Romnì, Rifugiate e Ristorazione) promosso da Arci Solidarietà, in cui donne rifugiate e rom propongono un catering multiculturale.

I cuochi di In Cammino (Foto: Elisabetta Elia)

Quella di Hanifa non è una vita facile: divorziata e con quattro figli si è sempre barcamenata fra lavori e ristoranti in veste di cuoca o cameriera. Dal 2014 entra a far parte delle «Gipsy Queens», progetto di catering romnì, che nel 2018 si trasforma accogliendo altre donne del progetto Sprar e diventando «R Qubed». Non più solo rom, ma anche Medio Oriente e Africa: sono cinque, al momento, le cuoche di questo gruppo interculturale.

«IL NOSTRO SOGNO è costruire una cucina attrezzata per una loro progettualità – spiega Valerio Tursi, presidente di Arci Solidarietà – Vogliamo mettere in moto il loro protagonismo e favorire l’aspetto relazionale di questa attività, dal momento che spesso vengono da contesti doppiamente escludenti».

Sul loro bancone, uno accanto all’altro, si susseguono le pite della tradizione romnì e le mafe di Coumba dalla Mauritania, la cucina della Somalia e quella dell’Iraq perché «insieme c’è più gusto». Parlando con chi di cucina se ne intende si scopre che spesso ci sono più elementi in comune che differenze: «La gente mi chiede sempre di parlare della cucina iraniana e delle differenze con quella italiana, ma in realtà ci sono piatti e ingredienti sorprendentemente simili». Saghar Setareh è di Teheran, arrivata in Italia per studiare dieci anni fa, e oggi ha fatto del cibo il centro delle sue attività. Il suo blog si chiama significativamente «Lab Noon – Flavors and encounters».

«Quello che mi appassiona di più è il dialogo fra la cucina mediorientale e quella mediterranea: è come se anche il cibo facesse il percorso della Via della Seta dal Medio Oriente all’Italia, cambia qualche ingrediente ma la base è comune». Basti pensare che un piatto tipico dell’Iran è la mirza ghassemi, una sorta di parmigiana in cui però viene aggiunta la curcuma, le melanzane sono affumicate e l’uovo viene mescolato col sugo. La stessa idea di comunione e condivisione anima Bazar, la taverna curdo-napoletana nata da poco nel quartiere di Tor Pignattara grazie allo sforzo di due ragazzi italiani e due curdi.

Il cuoco curdo Xerip nella cucina di Bazar (Foto: Elisabetta Elia)

Loro ci tengono a ribadire e dimostrare che in fondo le culture non sono così lontane come vogliono farci credere: «Quando vai in Kurdistan, vedi la gente che mentre mangia vive la strada. Ma la stessa cosa io l’ho vista a Napoli, con l’unica differenza che a Napoli ti offrono il caffè e in Kurdistan il çay», spiega Xerip Siyabend, arrivato in Italia nel 2013 direttamente da Diyarbakir, dove da tempo gestiva un locale tradizionale curdo. «C’è una cultura simile, fatta di condivisione e ospitalità: per noi il cibo è questo. E abbiamo deciso di farlo a Roma».

DEL MEDIO ORIENTE, a Roma, c’è anche la Palestina: una terra in cui, a causa dell’occupazione israeliana, molti piccoli proprietari di aziende o locali hanno dovuto dire di no al loro sogno nella loro terra. Parlando con un cuoco palestinese, ci racconta che «è difficile andare avanti quando ci sono scontri per 3 o 4 mesi, di turisti non se ne vedono e Israele impedisce che si fermino da noi».

Così anche lui, che in Palestina ha studiato Hotel Management – Food and Bevarage, porta con sé a Roma la cucina del Levante, che non è solo palestinese ma ricopre un’intera area del Medio Oriente che comprende anche Siria e Libano e le zone limitrofe.

«Ci sono tante cose in comune tra la nostra cucina e quella mediterranea, cambia solamente il modo di presentarle». I rashta sono una sorta di fettuccine fatte a mano e preparate con lenticchie e yogurt; le kufta sono polpette che possono essere cucinate con la tahina (crema di sesamo) o con le patate e i pomodori al forno; pollo e patate al burro vengono conditi con differenti spezie.

È, questa, solo una parte delle forze positive che si muove nel vortice di Roma capitale e che racconta una piccola porzione di mondi apparentemente lontani. E che, mentre tutto parla di esclusione e barriere, stende la mano per dirti: «Io sono come te».

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