Carceri, ma non solo: centri per il trattenimento dei migranti, ospedali, Servizi psichiatrici di diagnosi e cura, Residenze socio assistenziali (Rsa) o per l’Esecuzione penale esterna dedicate ai folli-rei (Rems), camere di sicurezza delle Forze di Polizia. Sono questi i luoghi dove la consapevolezza del diritto è stata messa a dimora 7 anni e dieci mesi fa dal primo Collegio italiano del Garante nazionale dei diritti delle persone private della libertà personale – composto da Mauro Palma, Daniela De Robert e Emilia Rossi – che ieri ha ufficialmente concluso il proprio mandato con una cerimonia al Senato.

E, gesto assai significante, con la deposizione di una corona di fiori alle Fosse Ardeatine, «come elemento di esito di una privazione della libertà drammatica, e contemporaneamente germe della democrazia per cui siamo oggi qui riuniti», come ha spiegato Palma. Oggi, quella consapevolezza è una pianta che ha messo radici. Se crescerà e si espanderà, oppure seccherà e morirà, dipende dalla continuità che il prossimo Collegio saprà imprimere all’azione messa in campo fin qui dall’autorità di garanzia che ha fatto da apripista e da modello anche per esperienze analoghe in altri Paesi democratici.

In sala, in nuovi componenti del Collegio nazionale – Felice Maurizio D’Ettore, Irma Conti e Mario Serio – non erano presenti. Il decreto presidenziale che sancisce la loro nomina, infatti, non è ancora stato firmato dal capo dello Stato Sergio Mattarella, perché il testo non è ancora arrivato al Quirinale malgrado l’iter si sia concluso martedì scorso in Consiglio dei ministri, con l’approvazione finale.

Neppure il ministro di Giustizia era presente ma, nel suo messaggio di saluto e ringraziamento al Garante uscente, Carlo Nordio ha messo il dito nella piaga delle carceri italiane, ammettendo il ritorno del sovraffollamento, la mancanza di lavoro per i detenuti, che è «la via maestra per il loro reinserimento», le «croniche carenze di organico», e soprattutto riconoscendo che in quell’immagine restituita dallo «specchio della società» che è il carcere «ora vediamo tanta marginalità, tanti problemi di salute mentale e di dipendenza dagli stupefacenti».

«Bisogna aver visto», scriveva Calamandrei. «Ma non basta: occorre sapere anche cosa andare a cercare», fa notare De Robert, che avverte: «La privazione della libertà si trasforma, si arricchisce di nuove modalità e nuovi luoghi. Con poche caratteristiche comuni: la vulnerabilità delle esistenze, il sentimento di appartenenza alla condizione di segregazione, il vuoto, la perdita di soggettività».

Ma bisogna sapere anche «dove» andare a cercare. Dove – come sintetizza bene Emilia Rossi – esercitare il controllo e volgere lo sguardo, al fine di poter mettere a punto, come è stato fatto fin qui, «un corpo normativo di soft law che è andato ad aggiungersi, con l’autorevolezza della sua fonte e dell’aderenza alle Direttive internazionali, al corpo normativo ordinario e primario». Qualcosa che fa della nostra democrazia anche uno Stato di diritto, «perché – ricorda Rossi – non tutte le democrazie accettano autorità di controllo come questa, non tutte vogliono essere permeabili».

Tra un intervento e l’altro, le letture dei testi di Michel Foucault (Eterotopia), di Jean Amery (Intellettuale ad Aushwitz) e di Egon Schiele (Un giorno qualsiasi) si elevano sui chiacchiericci scomposti del populismo penale. Perché al netto di un «moderatamente positivo bilancio di questi anni», ciò che preoccupa Mauro Palma è che «i diritti affermati senza sistemi di garanzia divengono mere enunciazioni».

«Qual è la pregnanza dell’affermazione del valore della vita se non si approvano indicazioni cogenti sulle politiche sociali degli Stati, perché la parola vita non sia scissa dall’implicito aggettivo di “dignitosa”? Il rischio – continua Palma – è una progressivamente accentuata asimmetria tra le affermazioni, l’enunciazione e la concretezza vissuta».

C’è un abisso pieno di mostri, sembra dire il matematico e giurista, tra il «rigore logico linguistico della scienza giuridica e delle norme a cui richiamava Norberto Bobbio sin dal suo antico e noto saggio Scienza del diritto e analisi di linguaggio, e invece la vaghezza di parole odierne e che pure regolano la massima potestà dello Stato, cioè la privazione della libertà personale». Che sia dei detenuti, degli anziani, dei migranti o dei malati. Di chiunque finisca, per un giorno o per sempre, nell’angolo buio della nostra società.