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La tortura secondo Jean Amery

Intellettuale ad Aushwitz Pubblichiamo un estratto del libro del 1966

Pubblicato 12 mesi faEdizione del 2 dicembre 2023

Se le semplici percosse, che in effetti non sono in nessun caso paragonabili alla tortura vera e propria, non producono quasi mai una vasta eco nell’opinione pubblica, esse sono tuttavia, per chi le subisce, un’esperienza che segna nel profondo; se non temessimo di sprecare sin d’ora le grandi parole diremmo chiaramente che si tratta di mostruosità. Con la prima percossa il detenuto si rende conto di essere abbandonato a sé stesso: essa contiene quindi in nucetutto ciò che accadrà in seguito.

Dopo il primo colpo, la tortura e la morte in cella – eventi dei quali magari sapeva senza tuttavia che questo sapere possedesse vita autentica – sono presentite come possibilità reali, anzi come certezze. Sono autorizzati a darmi un pugno in faccia, avverte la vittima con confusa sorpresa, e con certezza altrettanto indistinta ne deduce: faranno di me ciò che vogliono. Fuori nessuno è informato e nessuno fa nulla per me. Chi volesse correre in mio soccorso, una moglie, una madre, un fratello o un amico, non potrebbe giungere sin qui.

Non significa molto affermare, come talvolta a livello etico-patetico fanno individui che non sono mai stati percossi, che con il primo colpo il detenuto perderebbe la dignità umana. […] Sono tuttavia certo che sin dalla prima percossa egli perde qualcosa che forse possiamo definire in via provvisoria la fiducia nel mondo. Fiducia nel mondo.

Vi concorrono fattori di ordine diverso: la fede irrazionale, e non motivabile a livello logico, nel principio di causalità, ad esempio, o il confidare altrettanto ciecamente nella validità delle conclusioni induttive. L’elemento più importante della fiducia nel mondo tuttavia – e l’unico rilevante nel nostro contesto – è la certezza che l’altro, sulla scorta di contratti sociali scritti e non, avrà riguardo di me, più precisamente, che egli rispetterà la mia sostanza fisica e quindi anche metafisica. I confini del mio corpo sono i confini del mio Io. La superficie cutanea mi protegge dal mondo esterno: se devo avere fiducia, sulla pelle devo sentire solo ciò che io voglio sentire.

Con la prima percossa, però, questa fiducia nel mondo crolla. L’altro, contro il quale nel mondo mi pongo fisicamente e con il quale posso essere solo sino a quando lui come confine rispetta la mia superficie cutanea, con il corpo mi impone la sua corporeità. Mi è addosso e così mi annienta. […] Quando non si può sperare di essere soccorsi la sopraffazione fisica da parte dell’altro diviene definitivamente una forma di annientamento dell’esistenza.

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