Good Riddance, era ora. Theresa May si leverà di mezzo. O meglio, compirà «l’estremo sacrificio», come hanno detto e scritto mercoledì in un tono da filodrammatica di provincia che fa ghignare più che commuovere. Ma se ne andrà solo a patto che il parlamento più arcaico del mondo finalmente voti il suo tapino accordo di uscita dall’Unione europea. Oggi? Mentre scriviamo, ancora non si sa con certezza nemmeno se si voterà, la situazione involve ogni minuto. «Di domani sappiamo solo che è venerdì», cit. un deputato conservatore.

NÉ È DEL TUTTO CHIARO su cosa esattamente si voti. Mentre nelle sessioni precedenti, quelle in cui il deal di May era stato sommerso prima da 230 e poi da 149 no, l’aula si era pronunciata sia sull’accordo di uscita, sia sulla cosiddetta dichiarazione politica, un testo non giuridicamente vincolante che tracciava le linee guida dei futuri rapporti commerciali fra Uk e Ue, nel voto di oggi il governo vorrebbe scorporarle e presentare solo l’accordo di ritiro, in modo da aggirare il divieto dello speaker di rimettere di nuovo ai voti qualcosa di già silurato due volte.

SE QUESTO È UN MODO un po’ cialtrone di saltare l’ostacolo costituzionale rappresentato dall’eroe per caso Bercow, non è chiaro che cosa possa farlo approvare dopo le precedenti bocciature, soprattutto perché non contiene quelle modifiche al backstop unica ragione di vita dei dieci scherani del Dup che tengono in pugno May la miseranda. Tutto quello che le sue (presunte) dimissioni anticipate sembrano aver causato è una spaccatura nel gruppo dei nostalgici imperialisti dell’Erg: Rees-Mogg ha detto che voterà per l’accordo ma alcuni suoi accoliti si sono inferociti davanti alla capitolazione. Se l’accordo non passa per una terza volta, il Paese esce senza deal il 12 aprile; se passa, ha tempo fino al 22 maggio.

LA PALUDE PERFETTA si era del tutto rappresa ieri, dopo che il parlamento aveva cercato di riprendere il controllo (Take back control: mai slogan fascistoide era suonato tanto beffardo) – della – indovinate – British exit. I deputati dovevano votare le otto soluzioni alternative al piano May: nessuna ha raggiunto una maggioranza. Ad avvicinarsi di più sono state la mozione per la permanenza nell’unione doganale – sconfitta per otto voti -, quella per il chimerico secondo referendum – sconfitta per ventotto – e il piano del partito laburista – sconfitto per settanta. In tempi – e luoghi “normali”, dopo due batoste come quelle subite finora May sarebbe stata dimissionaria già da tempo. L’assurdità della sua permanenza al potere non risale alle solite consuetudini cinquecentesche, ma al recentissimo (2011) Fixed Term Parliamentary Act, legge che stabilisce che il governo, contrariamente al passato, è tenuto a dare le dimissioni solo in caso di una mozione di sfiducia disgiunta da una legislazione (in questo caso l’accordo), una perla che dobbiamo ai liberaldemocratici di Nick Clegg, allora in coalizione coi Tories di David Cameron.

INTANTO, AL SOLLIEVO momentaneo nell’apprendere che la miope e legnosa Theresa forse si toglie di torno, non rimpianta nemmeno dai suoi, segue il tremore del considerare le prospettive sulla sua successione. Le si potrebbero, infatti, avvicendare figure veramente esiziali come Boris Johnson, che ha fatto dell’ipocrisia carrierista un’arte insuperata: lui, che ha accettato di votare per l’accordo dopo averlo massacrato per settimane, ben sapendo che è la sua ultima occasione per appoggiare il derrière sullo scranno che fu dell’amato Churchill. Oppure l’ex socio che gli aveva fatto le scarpe dopo l’inaspettata vittoria al referendum, il mellifluo accoltellatore politico alla schiena e perniciosissimo ideologo Michael “Jago” Gove: roba da far sembrare la rigida figlia del parroco una Rosa Luxemburg.

GUAI, INFATTI, a dimenticare che i Tories – che da sempre si mangiano i propri leader sulla graticola dell’Europa come tanti Saturno – al momento sono in balia di un drappello di pericolose mezze figure, mentre i moderati del gruppo parlamentare laburista cercano di mazzolare il proprio leader a colpi di Brexit e antisemitismo anziché adoperarsi per delle elezioni che potrebbero porre fine a questo incubo e mettere un leader neosocialista a Downing Street. Insomma, è soprattutto questo Parlamento a doversene andare. In the name of god, go!, come già disse Cromwell qualche annetto fa.