È paradossale e per certi versi anche storicamente cinico che una delle forme di espressioni artistiche e sociali più rivoltose del Novecento, che aveva fatto suo il motto «nessun regola», affiancandolo all’apocalittico «no future», come è stato il movimento punk sia stato progressivamente musealizzato, omologato, catalogato e depotenziato di ogni velleità rivoluzionaria.

SOMMERSI
Sono parecchi anni che siamo sommersi da libri, biografie, documentari, autobiografie (tra cui le noiosissime e insopportabili dei protagonisti della scena hardcore americana a base di violenza giovanile, successiva fase di terribili dipendenze e lieto fine con redenzione finale, non di rado accoppiata a visioni politiche conservatrici e bigotte) che scandagliano il punk in ogni suo aspetto, anche quelli meno rilevanti e di risibile importanza.
Nonostante ciò in alcuni casi sono documenti importanti per circoscrivere il fenomeno in chiave storica, senza inutili parametri di differenze stilistiche o ideologiche che hanno ammorbato la scena per lunghi periodi. Il tempo e la maturità hanno consentito una ricollocazione più serena di quanto è accaduto e la possibilità di comprendere in pieno quanto accadde a cavallo tra il 1976 e 1977 tra Londra e New York è ora alla portata di studiosi, appassionati, curiosi, reduci, nuovi adepti, scavalcando narrazioni spesso imprecise o impropriamente colorite. Lo ha fatto anche Paul Marko in The Roxy London WC2, pubblicato finalmente nella nostra lingua da Hellnation Libri con la traduzione di Glezos.
Un lavoro ponderoso di oltre cinquecento pagine, ricchissimo di foto e documenti, che racconta la storia di quello che fu il primo locale (e sostanzialmente culla), tra la fine del 1976 e il 1977, del punk londinese, il Roxy. Il libro lascia la parola a decine di protagonisti che ricordano eventi, atmosfera, situazioni estreme, spesso divertenti, altre volte paradossali e non di rado drammatiche. Era una situazione in costante divenire, con i tempi che correvano velocissimi, i gruppi nascevano a ripetizione, spronati dall’urgenza e dall’immediatezza che proponevano i primi che era saliti sul palco del Roxy e che stavano mostrando al loro sparuto pubblico che chiunque poteva farlo.

La copertina di «The Roxy London WC2», il libro di Paul Marko

Non c’era più bisogno di alcun virtuosismo o tecnicismo strumentale. Due, tre accordi di chitarra, un ritmo veloce di batteria, una voce che urla disagio e insofferenza, parla di noia e frustrazione ed ecco confezionata una punk band. In alcuni casi la spontaneità era sincera e fresca, l’ispirazione di un concerto punk cambiò la vita a molti giovani (da Paul Weller a Joe Strummer, da Ian Curtis a Shane McGowan, bastò un concerto dei Sex Pistols per rivedere tutta la loro filosofia etica e artistica). Dopo poco tempo, capito che il fenomeno stava attirando attenzione mediatica ma soprattutto che le case discografiche erano in cerca di nuova linfa vitale da mettere sotto contratto, furono in tanti che accelerarono i loro brani di rock ‘n’ roll e rhythm and blues che erano abituati a proporre nei pub inglesi, tagliarono i capelli, si strapparono i jeans sulle ginocchia, una maglietta, un giubbotto di pelle ed ecco pronto un gruppo punk.

TUTTE LE SERE
Ricorda Chrissie Hynde, futura cantante dei Pretenders: «Salire su un palco senza avere una cazzo di idea di come si fa e farlo lo stesso: questa era la cosa che rendeva tutto entusiasmante. Ero giù al Roxy tutte le sere per i primi mesi. Non era questione di essere una buona o cattiva band ma di essere lì a farlo. La gente andava a vedere una band, usciva carica, formava una band a sua volta e tornava al Roxy a suonare».
Il locale sorgeva a Covent Garden, al 41–43 di Neal Street, ai tempi una zona non particolarmente ambita come è successivamente diventata, una volta ripulita e gentrificata Londra. Il Roxy, gestito da Andrew Czezowski, Susan Carrington e Barry Jones, si sostituì a un night club, lasciando il palco ai primissimi gruppi punk formatisi dopo l’esplosione mediatica dei Sex Pistols.

NEMICO PUBBLICO
Che fosse per genuina emulazione o freddo calcolo commerciale, il Roxy ospita alcuni dei nomi destinati ad entrare nella storia del rock, dai Clash ai Generation X di Billy Idol, Buzzcocks, i Jam di Paul Weller, Siouxsie and the Banshees, Adverts, X-Ray Spex, Eater e decine di altri. Il luogo è scuro, umido, sporco, inospitale ma ragazzi e ragazze trovano un approdo per potersi incontrare e crescere a livello creativo e numeroso, in un momento in cui il punk è il nemico pubblico numero uno e costante bersagli di attacchi violenti da parte di autorità ma soprattutto di teddy boy, hooligan e chiunque sia alla ricerca di uno scontro fisico.
Armand Thompson lavorava all’interno del locale: «Un casino totale: disorganizzato, caotico e la musica era piuttosto schifosa. Ma non importava, era una rivoluzione. C’era gente che disegnava vestiti, faceva fanzine e formava la sua band, facevi quello che volevi. Non dovevi essere bravo per forza, che poi è sempre stato un fattore molto relativo, il punto è che moda, musica e arte erano cambiate praticamente dall’oggi al domani e che ci stavamo divertendo tutti come pazzi a vedere i media bolsi e rincoglioniti cercare di capirci qualcosa. Nessuno capiva che il senso era: ’Fottetevi voi e le vostre regole, adesso facciamo da soli’. Il Roxy era l’incubatrice di questa energia/anarchia e senza il Roxy tutto questo non sarebbe successo».
All’interno del locale il dj era Don Letts e il suo reggae inondava il pubblico. Non solo: i suoi dischi contribuiranno a ispirare una sfilza di artisti e soprattutto a saldare in Gran Bretagna rasta e punk, due comunità marginalizzate – con le ovvie, debite differenze, politiche e culturali – dalla cultura dominante britannica. Lo confermerà lo stesso Bob Marley in Punky Reggae Party, il suo storico singolo del 1977. In quello stesso anno uscirà anche il fondamentale The Roxy London WC2, album live in cui sfilava la furia ultracockney di Johnny Moped, in cui impazzavano Slaughter & the Dogs, gli imprendibili, iperveloci ragazzini Eater, e ancora Wire, X-Ray Spex, Adverts o Buzzcocks. Fondamentali le parti in presa diretta tra il pubblico, con bicchieri sfasciati e caos variegato. Con quel disco entravi direttamente nel locale.
Di lì a poco sarebbe arrivato lo sfruttamento commerciale dei «turisti» che iniziarono a frequentare il Roxy per godersi quello strano spettacolo di gente bizzarra e musica violenta. Ancora una volta, in sostanza, ciò che nasce «dal basso» e in modo spontaneo, al di fuori dalle logiche commerciali, diventa un perfetto laboratorio gratuito per l’industria (discografica, estetica, moda, vestiario, oggettistica).
Il Roxy comincerà a perdere fascino e i frequentatori originali si rivolgeranno altrove o semplicemente si evolveranno in altre direzioni. Mark Perry, autore della prima fanzine punk, Sniffin’ Glue e leader degli Alternative TV è laconico: «Era diventato una seconda scelta, quasi un circolo per ragazzi, con tutti questi bambocci travestiti da punk che vagavano avanti e indietro. La cosa triste è che la gente è andata avanti a giocare con il punk anche dopo che era morto e sepolto. La primissima scena punk era originale, elettrizzante, fragorosa e pittoresca. Quello che è successo dopo non ha più avuto importanza».

SI CAMBIA
Il locale cambia proprietario, arriva un personaggio ambiguo e pericoloso, vicino alla delinquenza e alla malavita, Kevin St. John, che gestisce il luogo per altri interessi, decisamente lontani dall’aspetto artistico, fino alla chiusura nell’aprile del 1978, quando ormai a suonare sono gruppi sempre meno conosciuti e il punk è arrivato in vari altri luoghi.
Al posto del Roxy si installerà un grande marchio specializzato in costumi da bagno, le tracce di quanto è successo cancellate fino al 2017 quando viene apposta una targa commemorativa.