«Questa guerra non si combatte nella realtà, si combatte nella testa delle persone. L’importanza delle vostre azioni sul campo non si misura dalle città che prendete, si misura dai cervelli che conquistate. I nostri ragazzi non hanno conosciuto il caos degli anni Novanta, qualcuno doveva ricordargli che Putin incarna la stabilità e la grandezza della madrepatria». È solo nelle ultime pagine de Il mago del Cremlino (Mondadori, pp. 234, euro 19) – uno dei testi che svelano al meglio i meccanismi di funzionamento del potere moscovita – che il fantasma della guerra in Ucraina, in questo caso la sua fase iniziale in Donbass nel 2014, prende forma concreta. Vadim Baranov è giunto al termine dell’irrefrenabile flusso di coscienza che lo ha portato a narrare nello spazio di una notte il senso e i segreti del suo lavoro di consigliere, e tra i più ascoltati, di Vladimir Putin.

Non solo, «Vadja», come lo chiamano coloro che come lui hanno accesso alle più alte sfere del potere russo, descrive la traiettoria del putinismo fino alla vigilia del presente, ma ne racconta anche la genesi, il modo in cui intorno all’oscuro ex funzionario del Kgb si sono andati sedimentando interessi e volontà di dominio tali da individuare nella sua figura di «piccolo Zar riluttante» l’uomo giusto per stabilizzare il Paese, impedendo che dalle rovine dell’Urss potesse nascere, al di là della drammatica stagione eltsiniana, una qualche prospettiva democratica.

UNA CRONACA CHE ILLUSTRA la capacità della narrativa di spingersi al cuore delle vicende contemporanee più e meglio di quanto non sappiano fare tante indagini storiche o reportage giornalistici. Anche se alla base del romanzo di Giuliano da Empoli, pubblicato dapprima a Parigi dove si è aggiudicato il prestigioso premio dell’Académie française ed è stato tra i titoli finalisti al Goncourt, c’è in realtà la figura di Vladislav Surkov, uno degli «inventori» del fenomeno Putin, il consigliere del Cremlino, oggi caduto in disgrazia, che ha saputo «vendere» un modello di autoritarismo-pop ad una società impaurita e impoverita. Emergono, nel libro, le radici del presente: la Russia di Eltsin dove crescono le diseguaglianze, dove si impongono gli oligarchi che sfrecciano per le strade di Mosca con le loro Mercedes blindate incuranti dei pedoni, come novelli principi zaristi. Ma, anche, il diniego dei leader occidentali a riconoscere il ruolo e l’importanza del Paese, trattato alla stregua di un «barbone alcolizzato che si aggira fuori dal portone».

Nel mix di incertezza e risentimento, l’origine dell’affermazione di una figura come quella di Putin che nel romanzo arriva ad affermare: «L’unica arma che ha un povero per conservare la sua dignità è incutere paura». E i diversi volti della paura sono la forma più evidente, accanto alla capacità di intervenire di volta in volta tamponando in qualche modo le emergenze sociali, che acquisisce il potere di Putin nel corso degli anni: con la repressione in patria e la minaccia bellica su scala globale. Un aspetto, quest’ultimo che da Empoli declina anche nei termini di uno strumento di propaganda che si trasforma nella «macchina degli incubi dell’Occidente». In altri termini, e per quanto sinistra possa apparire tale lettura, l’idea di una guerra che al di là di conquiste territoriali e occupazione militare serva altri scopi, ben altra ipotesi ideologica. È «Vadja» Baranov stesso a spiegarlo a Alexander Zaldostanov, in questo caso un personaggio autentico, il capo dei «Lupi della notte», i biker nazionalisti sostenitori di Putin che il Cremlino inviò nel 2014 in Crimea. «Pensa a quanti dei nostri compatrioti, grazie a voi – afferma il consigliere di Putin rivolto a Zaldostanov -, recuperano un senso eroico della vita, la lotta tra il bene e il male, lo Zar in difesa dei nostri valori contro i nazisti ucraini e la decadenza degli occidentali». Una «lezione» per i giovani russi tentati dai movimenti d’opposizione, come per le piazze delle metropoli dell’ex impero sovietico, «gli ucraini che grazie a voi capiscono l’errore che hanno commesso: speravano che la Rivoluzione arancione li portasse in Europa e invece li ha portati alla violenza senza fine».

Dove si fermano le imbarazzanti ammissioni di «Vadja» sulla vera natura del regime putiniano, prendono forma le considerazioni che Mikhail Shishkin, tra i maggiori scrittori russi contemporanei, vincitore del Premio Strega Europeo 2022 con Punto di fuga (21lettere, pp. 448, euro 19,50), affida alla raccolta di saggi Russki mir: Guerra o pace? (21lettere, pp. 254, euro 19, traduzione di Veronica Giurich Pica), un’affascinante analisi dell’«anima russa» attraverso la storia e la cultura alla ricerca delle linee di frattura tra aspirazioni alla libertà e derive autoritarie.

NEL LIBRO, LO SCRITTORE nato a Mosca nel 1961 da madre ucraina e padre russo, e che da tempo ha scelto di vivere a Zurigo, sottolinea come «il crimine di Putin è aver avvelenato la gente con l’odio» e che anche quando lo Zar dovesse dimettersi «il dolore e l’odio potrebbero rimanere nelle anime per molto tempo ed allora la letteratura, l’arte e la cultura dovranno affrontare questo trauma». Nel frattempo, Shishkin ricorda come esista «un’altra Russia» che non solo si oppone alla guerra in Ucraina, ma che ben prima del febbraio di quest’anno e l’inizio dell’invasione, aveva cercato di fermare Putin e che quest’ultimo, consapevole del rischio, ha cercato di schiacciare scatenando ciò si potrebbe definire come «il fronte interno» del conflitto di lungo corso voluto dal Cremlino. Quella che Shishkin sembra descrivere è prima di tutto una guerra contro la democrazia, e forse anche contro le sue radici culturali più profonde: ciò che del resto è emerso negli interventi pubblici di Putin nei termini di una condanna senza appello dei «decadenti» valori dell’Occidente.

Per lo scrittore, una battaglia decisiva si è svolta da questo punto di vista già in seno alla società russa all’inizio dello scorso decennio – la prima edizione del libro, in lingua tedesca, è del 2019 – quando le strade di Mosca si riempirono di manifestanti anti-Putin. Era l’inverno del 2011 quando «per la prima volta una ribellione russa si svolse in modo ragionevole e pacato. Fu una rivoluzione pacifica, la nostra occasione per abbandonare la strada dell’ammutinamento e della dittatura e imboccare quella del cambiamento». Ma, ancora una volta, la risposta fu la repressione, la violenza poliziesca, le incarcerazioni di massa, mentre «l’opposizione fu pubblicamente stigmatizzata come quinta colonna dell’Occidente». Del resto, per Shishkin, il paradigma che guida le azioni del Cremlino resta sempre lo stesso: «Il regime conosce un solo mezzo per riportare il Paese sotto controllo: la guerra».

NON A CASO, proprio il prisma della guerra serve alla studiosa di cose russe Orietta Moscatelli per definire le coordinate del potere moscovita nel suo P. Putin e putinismo in guerra (Salerno editrice, pp. 156, euro 20, prefazione di Lucio Caracciolo). Se il crescente contrasto con l’Occidente è stato caratterizzato da una narrazione «imperniata sull’immagine di una Russia sotto assedio, alternativa a una civilizzazione destinata a definitivo declino», per aver negato le proprie radici religione, tradizionali, patriottiche, all’interno del Paese la militarizzazione della società è una sorta di conseguenza dell’incedere della campagna bellica. La definizione di un «nuovo totalitarismo» che mantenga serrati i ranghi nel Paese mentre proietta l’ombra di un ritorno alla grandezza russa sul piano internazionale, finisce così per nutrirsi di un’avventura bellica, per altro dall’esito del tutto imprevedibile. Anche se, ammonisce Moscatelli, «la Russia di domani potrebbe non avere Putin al comando, potrebbe essere altrettanto putiniana, se non di più».

EVIDENZIANDO il carattere di «spartiacque» tra due diverse fasi della storia europea dell’invasione russa dell’Ucraina, Andrea Graziosi, docente di Storia contemporanea all’Università Federico II di Napoli, rilegge dal canto suo per molti versi alla luce di quanto accaduto nel cuore d’Europa a partire dallo scorso 24 febbraio le traiettorie politiche e culturali del Cremlino. Il suo L’Ucraina e Putin, tra storia e ideologia (Laterza, pp. 168, euro 16) consente non solo di misurare l’impatto della guerra in corso nell’ambito del disfacimento dello spazio ex sovietico, ma di valutare fino a che punto le idee intorno alle quali si è definito il potere moscovita hanno svolto un ruolo di primo piano nella scelta delle armi. In questo senso, ricorda Graziosi che illustra meticolosamente le radici culturali e politiche del putinisimo, l’invasione dell’Ucraina è figlia «del progetto trasformativo del Russkij mir», l’idea di un nuovo spazio geopolitico che restituisca al Paese ruolo e grandezza perdute sulla scena globale e che, allo stesso tempo, imprima una nuova accelerazione nazionalista alla società rielaborando il mito di Stalin come, paradossalmente, l’eredità anticomunista dei russi bianchi – non a caso Graziosi parla di un’ambiguità vicina a quella «rosso-bruna».

Perciò, «le idee e le illusioni di Putin e del gruppo dirigente formatosi intorno a lui» – superiorità della forza, decadenza dell’Occidente, carisma del leader – «hanno giocato un ruolo fondamentale nel ritenere che Mosca potesse non solo costruire un nuovo mondo russo, ma anche ambire ad alterare radicalmente l’ordine mondiale». Come a dire che la via della guerra, prima che da calcoli tattici è stata determinata da una precisa visione del mondo.