È una storia di riappropriazione quella che racconta il padiglione olandese alla 60/a Esposizione internazionale d’arte di Venezia. Lì, nei Giardini, nella cornice della bellissima architettura di Gerrit Thomas Rietveld (abbattuta la vecchia struttura del 1912, nel 1953 fu ricostruita quella attuale secondo i principi del neoplasticismo), si entrerà nel vivo della scottante questione delle restituzioni culturali di beni frutto di spoliazioni violente e che oggi fanno bella mostra di sé in molti musei del mondo come preziosi tesori. Il Belgio ha già iniziato un suo processo di «revisione» delle proprie collezioni, redigendo un inventario del patrimonio e approvando una legge che favorisca il rientro nella ex colonia del Congo di manufatti artistici saccheggiati tra il 1885 e il 1960.
L’Olanda, invece, ha deciso di affidare la sua partecipazione nazionale in Biennale alla voce del collettivo Cercle d’art des travailleurs de plantation congolaise (Catpc), in collaborazione con Renzo Martens (che vive e lavora fra Amsterdam e Kinshasa) e il curatore Hicham Khalidi.

Principalmente, la mostra The International Celebration of Blasphemy and the Sacred, sostenuta dal Mondriaan Fund, nasce intorno a una prima, importante richiesta: quella di un prestito, da parte del Virginia Museum of Fine Arts, della statua del funzionario coloniale belga Balot, così che potesse raggiungere la sua «casa simbolica» a Lusanga. Una volta approvato il suo temporaneo viaggio, la statua è arrivata in Africa – accompagnata da una processione rituale e una serie di performance – e dal 20 aprile alla chiusura della Biennale sarà esposta in quel centro culturale chiamato White Cube (voluto da Martens per un’inversione di rotta economica ed ecologica di un’area come l’ex piantagione Lever in Congo), dove lo stesso collettivo Catpc fa la sua arte e rinverdisce antiche sapienze e tradizioni. In Laguna, la sua potenza ancestrale sarà emanata virtualmente, in streaming. «Non vedevamo l’ora di narrare la nostra storia a Venezia», afferma Ced’art Tamasala, che a nome di tutto il collettivo ha risposto alle domande de il manifesto.

Ced’art Tamasala, Matthieu Kasiama, Renzo Martens, Hicham Khalidi, Mbuku Kimpala, © Koos, Breukel, 2023

Qual è il significato del prestito della scultura di Balot, immagine di così alto valore storico e politico? Può parlarci della «biografia» di questa opera?
Il campo di Kingangu a Lusanga, dove ha sede il progetto del collettivo, era abitato dalle comunità Pende, trascinate via da Gungu e Kilamba per essere impiegate nel lavoro forzato per conto delle Plantations Lever (olio di palma, ndr). Oggi, la maggior parte dei membri del Catpc sono Pende o hanno un antenato nel loro albero genealogico. Insieme, abbiamo come obiettivo il recupero di questa scultura perduta. Balot è un’opera che fu realizzata dai Pende durante la rivolta del 1931; concepita come fosse una figura sacra, rappresentava la prigione dello spirito maligno di Balot, che uccise e deportò i Pende dalle loro terre (Maximilien Norbert Balot, 1890 -1931, fu un funzionario coloniale nell’amministrazione del Congo belga tra il 1913 e il 1918 e poi, di nuovo, dal 1930 fino alla sua morte, l’anno successivo, ndr).

Il ruolo della statua era principalmente quello di contenere e dissuadere l’oppressore dal compiere crimini contro i Pende, permettendo loro di resistere e vivere in pace nella propria terra. Il prestito della scultura e il suo arrivo nei luoghi delle piantagioni (contro le quali era stata immaginata), il ritorno seppur temporaneo a Lusanga e in mezzo al suo popolo d’origine è un primo passo che si colloca dentro al nostro processo di restituzione all’umanità del suo patrimonio, senza escludere le generazioni future. Per liberare ciò che è stato saccheggiato e poterlo condividere con ognuno. Soprattutto, dopo la sua «visita» a Lusanga, ovunque la scultura di Balot sarà esposta, avvierà un dibattito sulla restituzione. Non solo dell’arte, ma anche della terra e di tutto ciò che è stato rubato.

Come riuscite a combinare la rappresentazione di una nuova generazione di lavoratori delle piantagioni con il linguaggio dell’arte?
Le due cose si combinano da sole, semplicemente attraverso il modo in cui viviamo e affrontiamo questi temi all’interno del nostro collettivo, della nostra cooperativa e comunità – il Cercle d’art des travailleurs de plantation congolaise – e nel mondo. Nelle piantagioni proponiamo nuovi metodi di lavorare: insieme fatichiamo e insieme condividiamo. Insieme, rivendichiamo il nostro diritto all’arte e alla terra. Questo è «Luyalu ya Mosi». La forza dell’unione.

Come è nata la collaborazione con l’artista Martens?
L’ho conosciuto a Lusanga, proprio quando il Catpc stava prendendo forma. È stato un incontro positivo. Martens si è reso disponibile a dare una mano al collettivo, con un approccio rispettoso nel proporci la co-creazione di infrastrutture e tecnologie che permettessero un confronto alla pari con il resto del mondo. La nostra porta è aperta a tutti, purché rispettino la legge dell’uguaglianza e della stima reciproca.

Avete più volte ribadito che i musei occidentali sono stati finanziati dai lavoratori delle piantagioni, ma sostenete anche è giunto il momento della riconciliazione. Quale sarebbe il modo migliore per ottenerla?
Oggi non è più in discussione che questi musei siano stati costruiti con il contributo del lavoro forzato nelle piantagioni del mondo. Non è una mia opinione, ma il risultato di approfondite ricerche condotte con studiosi e studiose come Gikandi Simon dell’Università di Princeton o Arriella Aisha Azoulay della Brown University. Abbiamo anche indagato su musei come il van Abbé Museum di Eindhoven o la Tate Modern di Londra: le prove sono ancora lì, intatte. Sì, è arrivato il momento di guardare in faccia la storia invitando le persone che vivono in queste piantagioni a interrogarla con coraggio, nel tentativo di trovare rimedi duraturi ai mali che stanno divorando l’umanità. È una necessità che ci riguarda tutti, nord e sud del mondo. I musei che hanno beneficiato (e continuano a beneficiare) dell’aspro lavoro nelle piantagioni devono restituire la voce a quelle popolazioni, sostenendole nel loro processo di decolonizzazione. Solo così anche la decolonizzazione dei musei si potrà considerare completa.

Come collettivo, siete impegnati in diversi progetti, compreso quello di rigenerare foreste nelle aree disboscate dalle piantagioni…
Abbiamo cominciato a percorre questa strada in totale autonomia e utilizzando i nostri fondi, consapevoli dei rischi ecologici che tutti stiamo vivendo sul pianeta. Con i profitti ricavati dalla vendita delle nostre opere d’arte, abbiamo iniziato a riacquistare i terreni impoveriti dalle piantagioni monocolturali. Ora, lentamente, stiamo cercando di comprare ancora più terreni per metterli in sicurezza e coltivarli secondo gli standard ancestrali e naturali a cui ci siamo ispirati. Abbiamo anche partecipato a corsi con esperti di riforestazione tradizionale e moderna: ci hanno insegnato i loro metodi e, da allora, lavoriamo in diversi settori, tra cui l’apicoltura, l’orticoltura e l’agroforestazione.
Il nostro obiettivo è quello di far tornare le foreste nelle piantagioni, in tutti e quattro gli angoli del Congo.

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SCHEDA

Padiglione del Camerun, «Nemo propheta in patria»

Dopo l’esordio del 2022, la Repubblica del Camerun torna alla 60. Esposizione internazionale d’arte – La Biennale di Venezia, con il progetto «Nemo propheta in patria», 5 artisti camerunesi e 8 artisti «stranieri» presso Palazzo Donà Dalle Rose. Gli ospiti sono Jean Michel Dissake, Hako Hankson, Kendji & Ollo Arts, Patrick-Joël Tatcheda Yonkeu, Guy Wouete mentre la compagine internazionale vede esporre Angelo Accardi, Julia Bornefeld, Cesare Catania, Adélaïde Laurent-Bellue, Franco Mazzucchelli, Rex and Edna Volcan, Giorgio Tentolini e Liu Youju. Il percorso, ispirato al titolo della Biennale voluto da Pedrosa, ha spinto il commissario Serge Achille Ndouma e i curatori Paul Emmanuel Loga Mahop e Sandro Orlandi Stagl, ad approfondire il tema «Nemo propheta in patria» (Nessunoè profeta in patria). Il Padiglione della Repubblica del Camerun si presenta come un «luogo delle meraviglie», dove i progetti di artisti locali e internazionali si mescolano per celebrare il coraggio di chi non ha mai abbandonato le proprie idee, indipendentemente dal riconoscimento ottenuto.