Il Rio delle Amazzoni è il fiume più lungo del mondo (per alcuni si contende il primato con il Nilo); è luogo di fenomeni importanti per l’intera collettività umana: il disboscamento massiccio, gli incendi, l’inquinamento, la presenza di tribù di nativi estromesse dai loro territori. Il suo bacino naturale è colossale: è la foresta amazzonica, il «polmone verde» della Terra i cui milioni di alberi fanno rallentare il riscaldamento globale. Quando si parla del Rio delle Amazzoni tutto è gigantesco: i suoi miti e la sua leggenda: la lunghezza del fiume – 6992 chilometri, il fatto che oltre cento dei suoi innumerevoli affluenti siano navigabili, il dato che attraversi tre paesi diversi.

IL SUO ESTUARIO, a seconda delle fonti, è compreso tra i cento e i duecento chilometri, la sua profondità pare arrivi a cento metri. Un fiume grandioso lungo cui scorrono mondi interi: migliaia di storie corrono lungo il fiume, portate da uno dei duecentoventi affluenti del solo tratto che scorre nel territorio brasiliano dopo aver attraversato il Perù e la Colombia.

Oggi il Brasile brucia e la foresta compare nelle cronache per la distruzione di uno dei polmoni della terra. Ma c’è un altro modo di guardare all’Amazzonia e al grande fiume: luogo della magia e dell’immaginario che da cinque secoli lo candida a conservare il segreto dell’Eldorado, nascosto e lussureggiante, luogo di ricchezza e di spiritualità. La storia del Rio delle Amazzoni è radicata nel mito, nelle lingue diverse, nella vita delle 190 tribù indigene, nelle vicende dei garimpeiros (i cercatori d’oro), nel ciclo del caucciù che ha fatto la fortuna e la caduta delle città lungo il fiume.
Tra le molte vicende raccolte dal fiume vi è quella di E. I., identificato con le sole iniziali. Ha un nome brasiliano e la sua storia – che affonda le radici nelle palafitte dei caboclos, gli abitanti del fiume – l’ha raccontata a Maputo, in Mozambico, nell’unica sinagoga del paese, parecchi anni fa.

Una tesi ardita suppone che la direzione del Rio delle Amazzoni sia dovuta alla sua formazione antecedente la deriva dei continenti e che il grande fiume sia quindi nato, originariamente, in Ciad. Ma non c’è bisogno di questo per collegare il Brasile all’Africa e le due tradizioni lusofone, basta un uomo che, nato sul corso del Rio delle Amazzoni, decida di fare l’assistente sociale in un paese ancora più povero del suo quale è il Mozambico.
Del grande fiume non è sicura nemmeno l’origine del nome: un’ipotesi vuole che il primo europeo a risalirlo sia stato Francisco de Orellana tra il 1541 e il 1542 e che vi abbia incontrato delle donne indigene guerriere da cui sarebbe venuto il riferimento alle amazzoni. Fu lo scrivano di Orellana, frate Carvajal, che descrisse nella «Relacion del neuevo descubrimiento del famoso Rio Grande» la struttura delle società indigene. La citazione più antica del «Rio de Amaxones» risale invece al 1548 ed è riportata in un atlante del cartografo genovese Vesconte Maggiolo mentre fu Padre Samuel Fritz, un missionario gesuita tedesco, il primo a disegnare la mappa del fiume nel 1707.

«Uno spazio enorme, essenziale, vergine – spiega Sebastião Salgado nell’introdurre la mostra Amazzonia, prorogata fino a oggi 21 agosto al Maxxi di Roma – che è indispensabile proteggere», ma anche «un’Amazzonia viva, incontaminata, che è la sua parte più consistente, foto che raccontano quell’ottantadue per cento della foresta ancora carica di misteri», segreti e storie grandi e piccole.
E. I. all’epoca del suo racconto aveva una cinquantina di anni e due baffi poderosi, da bambino viveva però sulle palafitte, poche case raccolte tra l’acqua e il verde della foresta: un luogo di sosta per chi viaggiava sul fiume. Una povertà dignitosa che non sconfinava nella miseria. Suo padre – proprietario dell’unico spaccio del villaggio – non sapeva leggere; sua madre invece, caparbia e lungimirante, voleva che il figlio studiasse. Poco può fare la pluriclasse: manca tutto, mancano – soprattutto – i libri.

E. I. LEGGE I GIORNALI – quando arrivano portati dalle barche che risalgono il fiume – una lettura condivisa con il resto del villaggio fin quando le pagine si usuravano.
Un giorno, una nuova barca risale il fiume. Quando E. I. narra la sua storia, a Maputo partecipa alle funzioni in sinagoga. Lui – non ebreo – propone ai presenti un culto dello Shabbat, il sabato ebraico, come lo ha imparato dai molti ebrei delle organizzazioni internazionali che si sono avvicendate in Mozambico.
Decine di anni prima, sulla barca che risaliva il Rio delle Amazzoni, c’era un uomo con un aspetto strano perfino per la varia umanità dei caboclos: barba e capelli incolti, un vestito scuro, quasi non parlava portoghese ma, per farsi compagnia, portava con sé dei libri. Di quelli non faceva commercio: erano suoi e non erano molti, li leggeva e li rileggeva.

ERANO IN UNA LINGUA straniera che E. I. non conosceva ed erano anche i primi che avesse mai visto. Quando l’uomo capì il fascino che esercitavano sul ragazzino gliene lasciò uno, insieme ai rudimenti di quella lingua misteriosa. Quando risaliva il fiume raccontava, si riprendeva il libro e ne lasciava un altro. Come l’uomo, anche i libri erano vecchi e usurati, ma erano libri. E. I. leggeva e l’uomo raccontava, un libro dopo l’altro per mesi, anni. Poi l’uomo vestito di scuro smise di risalire il fiume e E. I. non ne seppe più nulla. Aveva però imparato a leggere la lingua strana e sconosciuta. Nel cuore della foresta amazzonica, lungo il Rio delle Amazzoni, aveva imparato a leggere lo yiddish, la lingua degli ebrei dell’Europa orientale.

LA PRIMA VOLTA che E. I. è sceso lungo il fiume è stato per andarsene: ha fatto il lavapiatti e si è pagato l’università. Ha studiato e fatto il sindacalista. Oggi l’archivio della polizia politica dello stato di Minas Gerais – al fine di democratizzare la consultazione delle raccolte documentarie – conserva testi con il suo nome: diffusione di materiale del Partito comunista clandestino ai tempi della dittatura, organizzazione della sinistra studentesca. Con la sua firma si trovano articoli sul sottosviluppo.

Quando E. I spiegava la sua storia di nato sul fiume più grande del mondo in una Maputo polverosa e descriveva cosa fosse uno shtetl, cosa l’ebraismo, cosa la Shoah, il suo sembrava un racconto surreale. E. I. declinava gli ebrei con il «noi» pur non millantando alcuna ascendenza ebraica: è solo – spiegava – «che esiste un legame tra ciò che ho letto nella giungla amazzonica lungo il Rio delle Amazzoni e ciò che sono venuto a fare nella capitale africana. È una questione di responsabilità». I fiumi, a volte, disegnano confini, altre portano storie che raccontano incontri, vicende di uomini e donne che si intrecciano come i corsi d’acqua che si versano nel Rio delle Amazzoni.

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SCHEDA. DALLE LETTERE DI AMERIGO VESPUCCI
«Ci regalarono tartarughe e pesci saporiti»

Nel 1499 il navigatore toscano Amerigo Vespucci, separatosi da Alonso de Ojeda in Guayana, si diresse verso sud esplorando l’attuale costa brasiliana fino al cabo di San Agustin.
Vespucci descrisse nelle sue lettere al fiorentino Lorenzo di Pier Francesco de Medici, due fiumi enormi, probabilmente il Rio delle Amazzoni e il Parà (estuario del Tocantins) che sfociano nell’oceano: «Credo che questi due fiumi siano la causa dell’acqua dolce nel mare. Accordammo entrare in uno di questi grandi fiumi e navigare attraverso di esso fino ad incontrare l’occasione di visitare quelle terre e popolazioni (…). Navigando, vedemmo segnali certissimi che l’interno di quelle terre era abitato. Quindi decidemmo di tornare alle caravelle che avevamo lasciato in un luogo non sicuro e così facemmo».
Dopo aver navigato per 15 leghe avvistarono un’isola enorme – probabilmente Marajò, l’isola fluvio-marina che si trova al centro dell’immenso estuario del Rio delle Amazzoni. Ecco nuovamente il racconto del fiorentino: «Avvicinandosi a detta isola con grande celerità, incontrammo gente bestiale e ignorante, però allo stesso tempo era la più pacifica e benigna di tutte le genti fino ad allora trovate; ed ecco i loro usi e costumi: il loro volto e corpo sono animaleschi. Tutti hanno la bocca piena d’una strana erba verde che ruminano, come fossero animali, cosicché difficilmente possono articolar verbo. Avevano anche alcuni recipienti tipo zucche legati al collo, alcuni di essi pieni di detta erba, altri pieni di una farina bianca simile a gesso, e con un bastoncino che insalivavano, si portavano alla bocca detta farina di gesso per poi masticarla insieme all’erba verde. (…) Questa gente si dimostrò così familiare che era come se li avessimo conosciuti da tempo. Camminando con loro nella spiaggia ci intrattenemmo con loro in amabili conversazioni. Quando desiderammo bere acqua fresca, ci fecero capire a segni che nell’isola mancava l’acqua fresca e ci offrirono l’erba e la farina che ruminavano di continuo; da ciò capimmo che usavano quella pianta proprio per non sentire la sete… Sono grandi pescatori e hanno grand’abbondanza di pesci. Ci regalarono molte tartarughe e altri tipi di pesce fresco e saporito». (Brani delle lettere di Amerigo Vespucci sono tratti da «Storia della colonizzazione europea dell’Amazzonia» di Yuri Leveratt. Si ringrazia Barbara De Benedictis) l. ta.