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Il rifiuto del neoliberismo e i golpe costituzionali in America Latina

Il rifiuto del neoliberismo e i golpe costituzionali in America Latina

Brasile e Lula Il processo d’integrazione regionale ha contribuito a modificare l’indirizzo politico della regione. I paesi latino-americani a guida progressista sono stati in grado così di unire le loro forze nel 2008 per scongiurare un tentativo di golpe in Bolivia e di prevenire una guerra tra Ecuador e Colombia. Mentre nelle relazioni internazionali, all’intensificazione dei rapporti commerciali con la Cina, è corrisposta una sempre più accentuata autonomia politica da Washington: testimonianza ne sono l’opposizione alla guerra in Iraq e a quella al «terrore», e successivamente l’astensione brasiliana all’Onu sulle operazioni in Libia

Pubblicato più di 6 anni faEdizione del 14 aprile 2018

La sistemazione del nesso nazionale-internazionale è centrale nella comprensione della vicenda Lula e più in generale della trama politica latino-americana. La divisione continentale del lavoro assegna storicamente a questa regione un ruolo subalterno, gerarchicamente subordinato agli interessi delle economie settentrionali. Uno dei risultati acquisiti dalla ricerca storica sull’America latina tende quindi a evidenziare la centralità del rapporto con gli Usa, tale fattore di condizionamento e quindi la relativa leadership politica, militare e strategica sono stati messi profondamente in discussione in questo quindicennio. Esemplificativa dei rapporti di forza che la sinistra del continente ha costruito in questi ultimi anni è proprio il ricorso, da parte delle oligarchie economiche nazionali che a essa si oppongono, al cosiddetto «golpe suave» in luogo di trame scopertamente militari come quelle della seconda metà del secolo scorso.

Il decisivo sostegno del Segretario di Stato Clinton al golpe honduregno del 2009 e il tempestivo riconoscimento del governo paraguayano nel 2012, insediatosi a seguito della defenestrazione dell’ex sacerdote cattolico Ferdinando Lugo, hanno un rilievo secondario di fronte all’ostentato silenzio dell’amministrazione Obama per la destituzione da presidente del Brasile di Dilma Rousseff: il terzo e più importante dei «colpi di Stato costituzionali» in danno di governi progressisti democraticamente eletti.

Se il copione seguito, per parte statunitense, era sempre lo stesso secondo Greg Grandin, professore di storia della New York University – «guarda, aspetta e incoraggia silenziosamente i complottisti, dando loro il tempo di consolidare un nuovo ordine fino a quando il riconoscimento appaia un corso ragionevole» – a cambiare rispetto ai primi due casi era la posta in palio: il paese più grande, con l’economia più diversificata della regione nonché il più importante partner economico regionale della Cina. Con la marginalizzazione politica del Pt lulista venivano posti in discussione i complessi equilibri economico-politici di una regione in cui la Cina, nella duplice veste di investitore e creditore ai governi, in molti casi senza vincolo alcuno, ha rappresentato infatti la principale alternativa alle condizioni imposte dal Fondo monetario internazionale o dai mercati finanziari, consentendo ai governi progressisti di perseguire politiche altrimenti non sostenibili.

Le cause della crisi lulista erano purtuttavia endogene. Come ampiamente argomentato da Perry Anderson, in un ragguardevole saggio sulla «London Review of Books», il protagonismo della magistratura e quindi la manovra ordita dalle oligarchie economiche brasiliane aveva prosperato nella crisi del modello di crescita economica targato Pt e nella debolezza delle articolazioni sociali di riferimento. Nel silenzio complice dell’amministrazione Obama sulla vicenda sono confluite quindi valutazioni di ordine strategico, contenere l’influenza cinese nella regione, e tattico: nei processi di integrazione politico-economica dell’America latina il Brasile di Lula ha operato, con successo, per aumentare il grado di autonomia della regione dagli Stati uniti.
Dal Patto di Rio e poi ancora con la nascita dell’Organizzazione degli Stati americani (Osa), a seguito della Conferenza di Bogotà del marzo 1948, l’integrazione latino-americana era stata infatti strumento di organizzazione e formalizzazione del dominio continentale statunitense. Le cose cambiarono con l’elezione di Lula nel 2003, quando cioè il Brasile respinse la proposta di Area di Libero Commercio delle Americhe (Alca) patrocinata dall’amministrazione Bush. A nulla erano valse le minacce di «commerciare con l’Antartide», qualora il governo brasiliano avesse deciso di rimanere al di fuori dell’Alca, da parte dell’allora Rappresentante per il Commercio Usa, Robert Zoellick (in seguito presidente della Banca Mondiale).

Le sinistre latino-americane, è utile rimarcarlo a beneficio del lettore italiano, più che impegnarsi per modifiche o migliorie varie respinsero in toto un’integrazione nel segno del libero mercato, dando linfa a nuovi processi di integrazione regionale improntati a giustizia sociale, cooperazione, solidarietà e complementarietà economica. Nacquero così l’Alba, l’Unasur, il Consiglio Sudamericano di Difesa e la Celac, mentre il Mercosur venne consolidato.

Il processo d’integrazione regionale ha contribuito a modificare l’indirizzo politico della regione. I paesi latino-americani a guida progressista sono stati in grado così di unire le loro forze nel 2008 per scongiurare un tentativo di golpe in Bolivia e di prevenire una guerra tra Ecuador e Colombia. Mentre nelle relazioni internazionali, all’intensificazione dei rapporti commerciali con la Cina, è corrisposta una sempre più accentuata autonomia politica da Washington: testimonianza ne sono l’opposizione alla guerra in Iraq e a quella al «terrore», e successivamente l’astensione brasiliana all’Onu sulle operazioni in Libia.

La carcerazione di Lula, in spregio alle più elementari garanzie processuali, rappresenta pertanto non solo un gravissimo attacco alla democrazia brasiliana ma soprattutto il tentativo di imporre una battuta d’arresto a quello straordinario processo storico che ha consentito a settantadue milioni di persone di uscire dalla soglia di povertà, secondo i dati della United Nations Devolepment Programme.

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