Il respingimento targato Italia
Mediterraneo Nel caso dei migranti riportati a Tripoli il primo luglio 2018 tutti gli elementi in gioco erano italiani, nonostante l’esecutore finale sia stato la «guardia costiera» libica
Mediterraneo Nel caso dei migranti riportati a Tripoli il primo luglio 2018 tutti gli elementi in gioco erano italiani, nonostante l’esecutore finale sia stato la «guardia costiera» libica
Mediterraneo centrale, 1 luglio 2018. I minorenni Ato e Cris, la dolce ma battagliera ventenne Kissa, Dahia con la sua pancia di otto mesi e quasi un centinaio di loro compagni eritrei e sudanesi viaggiano verso nord, su un gommone, nel tentativo di fuggire dalla Libia. La mattinata è trascorsa con un solo momento di tensione: un aereo di EunavforMed, nel suo quotidiano volo di ricognizione per individuare imbarcazioni sulla rotta Malta-Khoms, passa poco lontano, ma pare non averli visti, perché vola subito oltre. Poco dopo l’aereo europeo individua un altro gommone più vicino alla Libia e, tramite il Centro per il coordinamento del soccorso marittimo (Mrcc) di Roma, lo segnala alla cosiddetta «guardia costiera» libica. Ato, Cris, Kissa e Dahia, però, non possono saperlo e continuano a navigare verso la loro meta, sperando per il meglio.
Nel primo pomeriggio il mare si alza e il motore si rompe. Mentre provano a riavviarlo arriva un elicottero. Viene da nord, indugia su di loro con cabrate continue. È un mezzo militare e li punta dall’alto, come se non voglia perderli di vista. «Lo abbiamo avuto sulla testa per almeno un’ora», raccontano oggi i naufraghi. Quando l’elicottero finisce il carburante ritorna dove è partito. Pochi minuti più tardi, però, sulla scena compare la motovedetta libica Zwara. Abborda i migranti e li cattura.
DALL’INCROCIO tra le testimonianze dei sopravvissuti e di fonti della Marina oggi sappiamo che quell’elicottero era italiano. Era EliDuilio, dell’incrociatore Caio Duilio. La nave madre si trovava poco lontano, ma non era intervenuta a soccorrere il gommone, preferendo che lo facesse la motovedetta libica.
L’odissea dei rifugiati non terminò con la cattura. Come abbiamo già raccontato su il manifesto, sulla motovedetta Zwara si ruppero le pompe di sentina, l’imbarcazione iniziò ad imbarcare acqua e i 276 rifugiati che aveva a bordo si ritrovarono di nuovo in pericolo, con le condizioni del mare che, nel frattempo, erano divenute drastiche. Rimasero in quelle condizioni per oltre sei ore. Dahia, incinta di otto mesi, continuava a vomitare.
LA NAVE militare Caio Duilio non aiutò la motovedetta libica, restò nell’ombra, a pochissime miglia di distanza, e continuò a coordinare quello che è stato uno dei più grandi respingimenti collettivi in Libia degli ultimi anni. Pur di non fare intervenire attivamente una sua nave, la Marina italiana preferì chiamare una nave cargo che si trovava a quattro ore di navigazione: l’italiana Asso Ventinove. Gli stessi militari italiani supervisionarono tutte le operazioni di trasbordo dei migranti dalla Zwara alla Asso Ventinove. Lo sbarco, la mattina seguente, avvenne nel porto di Tripoli, sotto lo sguardo dei militari della nave Caprera, ormeggiata a pochi metri. I 276 migranti vennero rinchiusi nei lager libici di Tarek al Mattar e Triq al Sikka. Almeno due di loro morirono di stenti nei mesi successivi.
Nonostante le decine di comunicazioni ufficiali tra varie istituzioni e unità militari e civili italiane, l’evento rimase segreto finché le stesse vittime non lo denunciarono. Oggi c’è una causa civile al Tribunale di Roma.
La nave Caio Duilio
NELL’ESTATE 2018 i respingimenti collettivi illegali Hirsi e Orione erano già finiti in tribunale arrivando poi a sancire un principio importante: navi europee non possono respingere collettivamente stranieri in Libia. Il Governo italiano aveva recepito il messaggio ma sembrerebbe aver trovato una nuova strategia: fornire ogni tipo di mezzo ai libici, delegando loro il lavoro finale. Il mare era coperto da decine di motovedette regalate dall’Italia alla Libia, il problema rimaneva il cielo.
Il ruolo dei mezzi aerei è cruciale: un evento Sar può essere aperto solo dopo un contatto visivo, non basta una chiamata di soccorso. I libici non hanno assetti aerei in grado di fare ricerca e soccorso nel Mediterraneo, così l’Europa, con Eunavfor Med ha intensificato i voli di pattugliamento sulle rotte dei migranti, ovvero le direttrici Zwara-Lampedusa e Khoms-Malta. Gli avvistamenti sono trasmessi ai libici secondo un iter preciso: si comunica con tutti gli Mrcc (Italia, Malta, Tunisia, Libia), ma i libici sono gli unici a rispondere assumendo il coordinamento dell’evento Sar. Visionando alcuni rapporti dell’estate 2018 salta all’occhio il sistema: il flusso di informazioni parte da avvistamenti di aerei europei, transita per le istituzioni italiane (Operazione Mare Sicuro, Mrcc di Roma, navi militari come la San Giusto ormeggiata ad Augusta e la Caprera ormeggiata a Tripoli) e termina sempre alla cosiddetta Guardia Costiera Libica, che effettua materialmente i respingimenti.
ACCADDE COSÌ anche il primo luglio 2018: dei tre gommoni coinvolti nel respingimento segreto, i primi due vennero individuati da un aereo di Eunavfor Med, il terzo da EliDuilio, l’elicottero della Caio Duilio. Al Tribunale civile di Roma cinque rifugiati sopravvissuti hanno fatto causa all’Italia e l’Italia tenta di scaricare la colpa sui libici.
Ma, a ben vedere, il gommone dei rifugiati fu individuato da un elicottero italiano; la motovedetta libica che li prese a bordo fu chiamata dalla Marina italiana; la nave italiana Caio Duilio rimase a poche miglia senza dare assistenza al mezzo libico che imbarcava acqua, mettendo i rifugiati in ulteriore pericolo; la Marina italiana chiamò un’altra nave italiana, la Asso Ventinove, che li prese a bordo rifiutando loro la richiesta di asilo; al momento dello sbarco a Tripoli vennero fatti scendere usando la motovedetta 648, Ras El Jadir, regalata dall’Italia alla Libia; vennero deportati nei lager di Tarek al Mattar e Triq al Sikka, finanziati da progetti del ministero dell’Interno italiano.
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