Se è vero, come ha scritto Fernanda Pivano, che l’Antologia di Spoon River è stata «meno del verso ma più della prosa» è certo anche che la forza di quel libro non sia da ricercare soltanto nel tono narrativo con cui si meditano gli epitaffi quanto – semmai – nella capacità di dimostrare come, attraverso la descrizione della sofferenza di una vita talvolta esemplare, la morte possa essere l’esito di una certa condizione politica e sociale. A cento anni dalla prima edizione dell’Antologia di Spoon River, Antonello Mangano, fondatore di terrelibere!, ne La Spoon River dei braccianti (Meltemi, pp. 170, euro 15) ha scelto di richiamarsi a quell’opera e di farlo a partire proprio dalla necessità di riconsegnare alla storia i nomi di alcuni migranti: donne e uomini del nostro tempo indegnamente dimenticati. Come per Fletcher McGree di Spoon River, i protagonisti di Mangano, sfruttate e sfruttati, sono messi in un angolo e «cacciati fino a morire».

L’AUTORE CI RACCONTA allora la grande varietà di violenze subite, di coltellate incassate da operai e sindacalisti del nostro tempo di cui rimangono i nomi simbolo della violenza quotidiana, dell’ipocrisia, della pochezza di affermazioni irragionevoli piovute da un fosco cielo istituzionale. Come dal giudice di Lee Master e De André impariamo che un uomo di cinque piedi merita d’essere chiamato «vostro onore», dai resti carbonizzati di Becky Moses impariamo a inquietarci per le frasi sui Bingo bongo e i ministri «oranghi» o a vergognarci di poter anche solo considerare che gli immigrati «portano ogni tipo di malattie»; senza voler ragionare, per esempio, sull’assenza di una giusta legge che regoli l’attribuzione della cittadinanza.
Troppo spesso abbiamo vagheggiato l’immigrazione come un fenomeno di movimento, come qualcosa di incontrollabile, ma si tratta anzi, prima di tutto, del risultato di una serie di cause, di una successione di attese. L’immigrazione, racconta Mangano nella sua Antologia, non è arrivare – affogando – per «rubare case e lavoro» ma aspettare mesi un permesso e vederselo rifiutato, cercare la vita e la civiltà coltivando un sogno e morire a Villa Literno (Jerry Essan Masslo); immigrazione è tacere per paura di denunciare e morire per ventisei colpi di cacciavite (Adnan Siddique) o vivere nel ghetto di Rosarno e morire con quattro colpi di fucile (Soumaila Sacko); ed è anche nascere a San Giorgio Jonico per spegnersi ad Andria a quarantanove anni, magari sfruttata da un’agenzia interinale (Paola Clemente). Immigrazione è morire in un campo di pomodori, per la gola di indigenti commercianti (Mohammed Abdullah) o per un bimbo che vuole un bigmac e non può aspettare (Romulo Sta Ana).

DOVREMMO CHIEDERCI più spesso, come si chiede l’autore di questo libro: dove scopriamo l’immigrazione? Ricordando che la risposta non è soltanto nell’umiliazione di una schiena spezzata ma in quel lungo processo che va – senza soluzione di continuità – dalle cause di una partenza alle cause di un naufragio, dalla tortura in un campo libico alla tortura del campo di pomodoro. È questo scorrere di vite concluse troppo in fretta che Mangano sceglie di descrivere nella sua antologia, dove il significato dell’esistenza di alcuni braccianti, bruciati e sparati, diviene più che simbolico. Con uno sguardo sempre rivolto ai tanti altri mai arrivati che sulle colline di nessuna Spoon River né di altra Rosarno hanno avuto in sorte di dormire, a quelli che prima di trovare una terra in cui scrivere il loro nome, in attesa di un narratore che ne raccontasse lo sfruttamento, hanno trovato l’abisso del mare. In fondo, mentre sulla terra le lapidi sono anche corpi, in quel mare i corpi mai arrivati non hanno lasciato nemmeno un nome. Nati come stranieri ungarettiani, tornati da epoche «troppo vissute» per godere un minuto «di vita iniziale», alla ricerca di «un paese innocente», «assuefatto» ma – in verità – sin troppo colpevole.