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Il puzzle sociale israeliano, la protesta va oltre la riforma

Il puzzle sociale israeliano, la protesta va oltre la riformaCivili e militari durante una protesta a Gerusalemme – Ap

Otto mesi in piazza La mobilitazione partita a gennaio prosegue e rivela un paese sempre più frammentato. Aumenta la tensione tra laici e religiosi

Pubblicato circa un anno faEdizione del 27 agosto 2023

Venerdì, per la seconda settimana consecutiva, Ron Naglar con altri attivisti si è ammanettato ai corrimano all’ultimo treno della metropolitana leggera di Tel Aviv entrata in servizio una settimana fa. Così facendo ha costretto la Tevel, che gestisce la metropolitana leggera, a bloccare il treno alla stazione Allenby di Tel Aviv.

«Non ci fermeremo, continueremo a chiedere che la metropolitana resti in servizio durante lo shabbat (il giorno di riposo ebraico, ndr)» ci dice Ron perentorio. Poi aggiunge: «Chi non vuole salire in metropolitana per ragioni legate alla religione vada a piedi o resti a casa. Perché Tel Aviv è una città aperta, abitata da persone libere di fare ciò che vogliono».

Quando il 18 agosto la Linea Rossa della metropolitana leggera – 24 chilometri con 34 stazioni da Bat Yam a Petah Tikva – è stata inaugurata dal premier Netanyahu, si è appreso in via ufficiale che la ministra dei trasporti Miri Regev non avrebbe consentito a questo mezzo di trasporto, atteso da anni, di operare durante lo shabbat e le principali festività religiose. Un tradimento della promessa fatta da chi l’ha preceduta, la laburista Meirav Michaeli.

MESSA SOTTO pressione dagli abitanti, quasi tutti religiosi ortodossi, del sobborgo di Bnei Brak, dove la metro ha diverse fermate (sebbene la linea in quella sezione sia interamente sotterranea), Regev si è fatta garante dello status quo che regna in Israele, con rare eccezioni. Così la metro di Tel Avvi non opererà durante lo shabbat. «Questo è uno Stato ebraico», ha tuonato la ministra rispondendo alle contestazioni.

Un affronto per chi vive nella città più liberal e laica di Israele dove negli ultimi dieci anni hanno cercato rifugio tanti israeliani stanchi di subire le continue imposizioni delle comunità religiose ortodosse. Persino il sindaco Ron Huldai non si è presentato alla cerimonia di inaugurazione.

«Huldai ha fatto bene» afferma Ron Naglar «occorre resistere allo strapotere dei religiosi, già padroni della politica e che vogliono fare di Israele uno Stato religioso fondamentalista. Non resteremo a guardare, continueremo a lottare e chiediamo a tutti gli abitanti di Tel Aviv di boicottare la metropolitana fino a quando non sarà revocato il divieto».

Come era logico attendersi, la vicenda della metro si è inserita subito nella frattura che lacera Israele da quando il governo Netanyahu ha avviato la sua contestatissima riforma giudiziaria. «Quando si guarda al progetto antidemocratico della maggioranza di destra – ci dice Orly Noi – attivista e direttrice del giornale progressista +972 – si tende a pensare che i pericoli riguardino solo la Corte suprema e la separazione dei poteri. Non è così. Il carattere più religioso che il governo vuole dare a Israele, attraverso nuove leggi e le funzioni delle corti rabbiniche, è uno degli obiettivi della riforma. E a pagarne i costi maggiori saranno soprattutto le donne».

Il conflitto interno si allarga e include nuovi campi di battaglia. Continua però ad ignorare l’interminabile occupazione militare dei Territori palestinesi che pure pone interrogativi centrali a uno paese che si descrive come l’unica democrazia del Medio oriente. Così come il rapporto tra la minoranza araba (palestinese) e lo Stato che, nero su bianco, afferma in una legge fondamentale di appartenere agli ebrei e non a tutti i suoi cittadini. «Sono temi che non riguardano la crisi democratica, che ora non possiamo e non dobbiamo affrontare», replicano gli attivisti delle proteste contro la riforma giudiziaria.

SE L’ESTATE ha visto un relativo affievolimento della forza delle manifestazioni contro i piani del governo, le proteste riprenderanno quota nei prossimi giorni. Si avvicina una scadenza che potrebbe innescare uno scontro ancora più ampio e intenso rispetto a quello visto in questi mesi.

Il 12 settembre la Corte suprema è chiamata ad accogliere o a respingere i sette ricorsi presentati contro l’emendamento – approvato dalla Knesset il mese scorso – a una legge fondamentale che abolisce lo «standard di ragionevolezza», ossia elimina la capacità della Corte suprema di annullare i provvedimenti amministrativi dello Stato, in particolare le nomine politiche «irragionevoli».

Contro questo passo che lega le mani ai giudici della massima corte e che, di fatto, copre le spalle a Netanyahu sotto processo e favorisce il l’ingresso nel governo anche di persone condannate o sotto indagine per corruzione, sono scesi in campo l’Ordine degli avvocati israeliani, il Movimento per un Israele democratico e il Movimento per un governo di qualità. Gli oppositori chiamano alla difesa anche del procuratore generale Gali Baharav-Miara – una spina nel fianco di Netanyahu – che il governo vorrebbe mandare a casa per sostituirla con qualcuno più malleabile.

UN INTERROGATIVO anima le discussioni di chi contesta il governo nelle strade e alla Knesset. Cosa accadrà se la Corte suprema deciderà di bocciare l’emendamento che riguarda direttamente il suo ruolo di garanzia e mira a ridurre i suoi poteri? La destra scenderà in strada per far leva su quella parte di popolazione che sostiene l’azione del governo?

Gli analisti tendono ad escludere che Netanyahu, anche per ragioni di immagine internazionale, scelga di gettare il paese nel caos. Nessuno però può prevedere come si comporteranno i partiti suoi alleati. Perché questa non è la riforma solo di Netanyahu. È il progetto dell’intera maggioranza di destra religiosa.

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