Oltre settanta arresti, tafferugli con la polizia, blocchi stradali a Tel Aviv come ad Haifa e una manifestazione con diecimila persone agli ingressi dell’aeroporto internazionale «Ben Gurion». È solo un bilancio parziale del «Giorno di Resistenza» che ha toccato ogni angolo del paese contro la riforma giudiziaria intrapresa dal governo Netanyahu. In serata erano previsti altri raduni con decine di migliaia di manifestanti a via Kaplan a Tel Aviv. «Di fronte a una coalizione dittatoriale, solo il popolo può salvare Israele» esortano gli organizzatori delle proteste. Eppure, anche questa ennesima dimostrazione di forza del movimento contro la riforma giudiziaria avviata a inizio anno dal governo non sfiora il premier Netanyahu e la maggioranza formata da partiti di estrema destra religiosa.

Le oltre cento manifestazioni tenute ieri hanno fatto seguito all’approvazione alla Knesset in prima lettura (su tre) – 64 voti a favore e 56 contro – della limitazione della cosiddetta «Clausola di ragionevolezza». Dovesse essere approvata in via definitiva, come è probabile, la nuova legge eroderà le prerogative del potere giudiziario rispetto all’esecutivo. Sino ad oggi la Corte suprema è stata in grado di intervenire su provvedimenti del governo o di singoli ministri. Potere che i due teorici della riforma, il ministro della giustizia Yariv Levin e il capo della commissione costituzionale Simha Rothman, intendono ridurre al minimo, con l’appoggio del premier Netanyahu che continua a recitare un ruolo ambiguo. Da un lato lascia trapelare una sua presunta intenzione di attuare una riforma giudiziaria più contenuta rispetto al progetto iniziale, come ha detto giorni fa al Wall Street Journal. Dall’altro non compie passi significativi in quella direzione, il negoziato con l’opposizione è quasi fermo al palo. Il premier si limita a rassicurare l’opinione pubblica. In un video postato sui social, ha affermato che la nuova legge sulla «Clausola della ragionevolezza» non rappresenterà «la fine della democrazia, piuttosto rafforzerà la democrazia». I diritti dei tribunali e dei cittadini israeliani, ha garantito, «non saranno in alcun modo violati…La Corte suprema continuerà a monitorare la legalità delle decisioni e delle nomine del governo».  Le cose non stanno così, spiegano gli oppositori della riforma, a cominciare dagli ex primi ministri Yair Lapid ed Ehud Barak.

La riforma giudiziaria, intanto, pesa sempre di più sulle prestazioni dell’economia israeliana, a cominciare dall’hi-tech, settore al centro ieri dei colloqui a Tel Aviv tra la ministra dell’università Anna Maria Bernini e il suo omologo israeliano della scienza e della tecnologia Ofir Akunis. L’hi-tech fornisce circa un quarto delle entrate fiscali israeliane e rappresenta circa la metà delle esportazioni: gli investimenti nel settore sono diminuiti più drasticamente che in altri paesi, secondo i calcoli dell’Autorità per l’innovazione nella prima metà dell’anno. Israele inoltre non sta partecipando alla ripresa globale dell’alta tecnologia frutto dell’entusiasmo per le nuove opportunità create dal boom dell’intelligenza artificiale. Senza dimenticare l’indebolimento dello shekel nei confronti del dollaro e dell’euro. Secondo i calcoli della Banca d’Israele, il calo della valuta dell’1% comporta un aumento di 0,1-0,2 punti percentuali dell’inflazione in un paese dove il costo della vita è già tra i più alti nel mondo occidentale. Queste e altre insidie per l’economia israeliana significheranno in futuro una perdita media di oltre 50.000 shekel, quasi 13 mila euro per ogni famiglia.