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Il problem-solving cinese da Kabul alla Cambogia

Il problem-solving cinese da Kabul alla CambogiaXi Jinping con il presidente russo Putin – Ap

Asia La strategia asiatica di Pechino, che dalle crisi trova nuova linfa. E l’ostilità verso le «interferenze esterne» fa presa sul Pakistan di Imran Khan in bilico

Pubblicato più di 2 anni faEdizione del 6 aprile 2022

«Sebbene l’ordine globale basato sul liberalismo sia parzialmente collassato, questo non è stato abbandonato, e il nuovo ordine globale è ancora difficile da finalizzare a breve termine».

E in questo complesso momento di transizione, nel quale «il rapporto tra i grandi paesi in fase di riorganizzazione può essere più sottile e più complicato e il gioco strategico tra loro è più intenso», la Cina può e deve agire come «fattore stabilizzante e portatore di certezze».

Wang Cungang dell’Unversità Tongji di Shanghai descriveva così il ruolo di Pechino nella raccolta del 2021 (a cura di Zhang Qinmin) Interpretazione della filosofia diplomatica cinese nella nuova era.

Pur dopo la guerra in Ucraina e l’apposizione dell’etichetta «senza confini» all’amicizia con la Russia, Pechino continua a pensarsi un fattore stabilizzante all’interno di un ordine in fase di disfacimento, eppure non ancora abbandonato o abbandonabile.

Perché quello nuovo non è ancora pronto. O perché l’alternativa non è un nuovo ordine mondiale ma una sua frammentazione in modelli scomposti nel quale può prosperare chi si immagina un futuro di autosufficienza e adattabilità.

In mezzo ai problemi, come da tradizione Pechino va a caccia di opportunità. Lo ha fatto nell’anno primo della pandemia, quando con la rimodulazione in chiave sanitaria della Via della Seta aveva monetizzato e rafforzato il soft power. Soprattutto in quel mondo ricordato da Simone Pieranni: quello che non vediamo.

E di nuovo a quella parte di mondo, quella che ritiene parte del «destino condiviso» prefigurato da Xi Jinping, guarda ora Pechino. Ergendosi a capofila di un approccio pragmatico, dunque stabilizzante, al conflitto in corso in Ucraina. Contro la guerra ma non contro la Russia, fin quando e laddove conviene.

Perché è ora di dire basta a chi vuole decidere per gli altri e a chi getta «benzina sul fuoco», ritornello ripetuto senza sosta da governo e media cinesi in riferimento agli Stati uniti. Ancora di più: è ora di dire basta a chi sfrutta (o addirittura causa, secondo la propaganda sino-russa) un conflitto con l’obiettivo di operare un regime change in governi non allineati.

Tutte queste direttrici retoriche stanno avendo sbocco nella realtà dell’Asia-Pacifico. Prima ramificazione in Afghanistan. Pechino ha assunto con sempre maggiore convinzione il ruolo di capofila del processo di normalizzazione della Kabul post ritiro americano.

Nei giorni scorsi ha ospitato una riunione ministeriale a Tunxi, alla presenza dei diplomatici di Russia, Iran, Pakistan, Tagikistan, Turkmenistan e Uzbekistan. Tutto il vicinato dell’Afghanistan. Iniziando ad aprire al futuro riconoscimento ufficiale del governo talebano, con cui la collaborazione in materia di sicurezza è necessariamente già stata avviata per mettere in sicurezza il corridoio del Wakhan.

Nel Sud-Est asiatico la Cina porta innanzitutto stabilità economica, essendo il primo partner commerciale di tutta la regione. Il suo approccio autodefinito neutrale alla guerra piace a molti nell’area. In primis alla Cambogia, che tra l’altro detiene la presidenza di turno dell’Asean per tutto il 2022.

Mentre Pechino è tornata in rotta di collisione con Indonesia (che comunque ha per ora escluso la possibilità di escludere la Russia dal G20 di Bali) e Filippine nel mar Cinese meridionale, Phnom Penh ha siglato un memorandum d’intesa di cooperazione militare. La firma è stata messa da Hun Manet, vice comandante dell’esercito cambogiano nonché figlio del premier Hun Sen e suo erede designato.

È di pochi giorni prima l’annuncio di un accordo di sicurezza con le Isole Salomone, teatro di violente rivolte negli scorsi mesi. Anche qui, Pechino si presenta come forza di stabilità. Ruolo che dalle parti di Honiara era sempre spettato all’Australia.

L’ostilità verso quelle che vengono descritte come «interferenze esterne» fa presa invece in paesi come il Pakistan, dove Imran Khan è riuscito a salvarsi in extremis da una mozione di sfiducia parlamentare, bloccata per le presunte pressioni estere (leggasi Usa) denunciate dal primo ministro che si racconta nel mirino per la sua amicizia con Vladimir Putin (e Xi). Il gioco strategico è intenso, spesso lì dove non si guarda.

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