Il presidente serbo Aleksandar Vucic ha ordinato lunedì sera lo stato di massima allerta per l’esercito e le forze di polizia serbe. Da sottolineare che solo il giorno prima le autorità di Pristina aveva impedito l’ingresso del patriarca ortodosso Porfirjie in missione a Pec per le feste religose- il Kosovo è ancora Metohjia, la Terra della Chiesa. Vucic ha motivato la decisione con la necessità di difendere la popolazione serba dalle «crescenti provocazioni e minacce alla loro sicurezza e incolumità fisica». C’è di fatto la concreta possibilità che le forze di sicurezza di Pristina intervengano per rimuovere barricate e blocchi stradali – non sono mancate sparatorie – con i quali da 18 giorni i serbi protestano contro l’arresto di tre agenti di polizia serbi dimissionari, accusati di «atti di sabotaggio» e contro la decisione di Pristina di inviare al nord un forte contingente di forze speciali di polizia albanese, malsopportata nelle aree del nord a maggioranza erba, come Kosovska Mitrovica divisa dal fiume Ibar. Sotto accusa la politica «discriminatoria» verso i serbi del premier Kurti.

Il ministro degli esteri serbo Ivica Dacic è stato chiaro: saremo costretti ad intervenire «se i serbi del Kosovo saranno attaccati e se la Kfor-Nato ( che presidia il territorio dalla fine della guerra nel 1999 ndr) non dovesse intervenire». Per Dacic sono tre le «linee rosse» di Belgrado: la creazione della Comunità delle municipalità serbe in Kosovo, decisa da accordi internazionali nel 2013 e mai attuata dai governi di Pristina; il no netto all’indipendenza del Kosovo e alla sua ammissione all’Onu e ad altri organismi internazionali; la difesa della sicurezza dei serbi. Da ricordare che il Kosovo non è riconosciuto da molti Paesi dell’Onu e nemmeno da cinque Paesi dell’Ue: Spagna, Grecia, Romania, Slovacchia e Cipro Nord.

Nei giorni scorsi la premier serba Ana Brnabic, considerata non-nazionalista, aveva replicato con durezza alle dichiarazioni della ministra degli esteri tedesca Annalena Baerbock, che ha definito «inaccettabile» l’invio di forze di sicurezza serbe in Kosovo, come richiesto da Belgrado alla Kfor-Nato. «Nel comunicato finale dei ministri degli esteri del G7 il 14 maggio 2022 – ha dichiarato Brnabic – si dice che per la soluzione di tutti i problemi e delle varie crisi nel mondo Libia, Siria, Yemen, Somalia, ecc) è necessario applicare strettamente le relative risoluzioni del Consiglio di sicurezza Onu. Per questo sorprende che ora il ministero degli esteri tedesco dica che la risoluzione 1244 – che prevede che la Serbia abbia il diritto di chiedere il ritorno in Kosovo di un determinato contingente delle sue forze di sicurezza – vada ignorata come ‘inaccettabile’. In fatto di diritto internazionale, sulla base di quali criteri decidete quali risoluzioni Onu vanno rispettate e quali invece no?».

L’attuale crisi, la peggiore da venti anni a questa parte – il precedente più grave furono i pogrom contro i serbi e le devastazioni dei monasteri ortodossi nel 2004 – è cominciata nel settembre 2021 quando il premier Kurti ha affrontato il nodo delle targhe del Kosovo – proclamatosi indipendente unilateralmente nel 2008, mentre il padre della patria Hashim Thaqi, ex leader dell’Uck, è stato arrestato e processato all’Aja nel 2020 per crimini di guerra e contro l’umanità. L’obbligo del cambio delle targhe automobilistiche serbe con quelle kosovare con il simbolo RKS (Repubblica del Kosovo), è stato solo un segno di sovranità che i serbi non riconoscono. Così per protesta dal 5 novembre tutti i rappresentanti serbi delle istituzioni kosovare – parlamento, governo, amministrazioni locali, tribunali, polizia – si sono dimessi in massa per «difendere il diritto internazionale», dichiarava in una grande manifestazione a Mitrovica Goran Rakic, leader di Srpska Lista, il maggiore partito serbo in Kosovo e ministro (dimissionario) per le comunità e il ritorno dei profughi nel governo di Pristina.

Ora il premier albanese Kurti in difficoltà punta il dito contro Putin che «soffia sul fuoco» e i media albanesi parlano di «presenze del gruppo Wagner». Il fatto è che, la Nato, gli Usa e l’Ue per ora non alimentano questa visione e mantengono un silenzio assordante: dovrebbero spiegare come mai a 23 anni dai bombardamenti «umanitari» Nato sulla Serbia e a 14 anni dall’indipendenza unilaterale del Kosovo sostenuta dagli Usa, qui la ferita resta ancora aperta. Certo, Putin fa il suo sporco gioco, probabilmente. Ma il fuoco sotto la cenere su cui soffiare c’è, e in abbondanza. E dipende per larga parte dai nodi irrisolti della guerra Nato del 1999.