Il potere globale: 8000 miliardi e vent’anni di guerre
Usa/Cina La supremazia Usa alla sfida della Cina, resuscita il mito della potenza militare necessaria. «Rimarremo leader dell’Indo-Pacifico» Dove vive metà del mondo, ma nessun americano
Grazie all’invasione dell’Ucraina è resuscitato il mito che il mondo abbia bisogno di più potenza militare americana. Un mito che appena un anno e mezzo fa sembrava sepolto nelle valli afghane: 20 anni di costosissima e inutile guerra finivano nel caos dell’aeroporto di Kabul e nel completo ritiro delle truppe. Afghanistan e Iraq: le due guerre più lunghe della storia degli Stati uniti, che avevano portato solo morte e distruzione senza raggiungere nessuno degli obiettivi pomposamente dichiarati all’inizio.
Sarebbe dovuto essere un campanello d’allarme simile a quello suonato in Gran Bretagna nel 1956, dopo l’intervento per riaffermare il proprio controllo sul Canale di Suez e per “dare una lezione” al presidente egiziano Nasser. La debacle che ne seguì costò il posto al Primo ministro inglese Anthony Eden e costrinse gli inglesi a riconoscere che il loro ciclo imperiale era giunto alla fine. La vecchia ricetta – mettere in riga i popoli più deboli – non funzionava più.
LA CAOTICA e umiliante fuga da Kabul nel 2021 avrebbe potuto essere l’occasione per dichiarare la finita l’era degli interventi militari ai quattro angoli del mondo: al contrario, grazie anche a Putin, il momento è passato. L’invasione dell’Ucraina da parte della Russia ha fatto rivivere la tradizione più che secolare dell’uso della forza da parte dell’America, sia pure nella forma dell’uso di forze locali: così come c’erano state le truppe vietnamite, e poi afghane, addestrate e pagate dal Pentagono, oggi nella steppa combattono giovani ucraini che consumano più armi e munizioni di quante gli Stati Uniti riescano a produrne.
LA GUERRA AFGHANA è sparita dalla memoria e l’amministrazione sembra pronta a commettere gli stessi errori che hanno portato a quella sconfitta, tutti giustificati dall’apparente obbligo di leadership globale: qualche giorno fa l’ambasciatore americano in Cina, Nicholas Burns, ha dichiarato che gli Stati Uniti sono, e intendono rimanere, i leader della regione Indo-Pacifica, ovvero dell’immensa regione multicontinentale compresa tra l’Australia a sud, l’Asia a nord, l’Africa a ovest e il centro dell’Oceano Pacifico a est. Contiene metà della popolazione della Terra e ovviamente anche la Cina ma non gli Stati uniti, ovviamente, quindi le affermazioni di Burns non possono che essere percepite come fortemente provocatorie a Pechino.
Oggi il presidente Joe Biden e i suoi consiglieri parlano parlano disinvoltamente di Russia e Cina in modi che lasciano trasparire una visione obsoleta, moralistica e sconsideratamente grandiosa del potere americano. Una retorica bellicosa adottata da Biden che sempra aver sposato senza riserve l’ossessione dell’establishment di Washington per l’egemonia, insieme all’idea di una nuova era di dominio americano sostenuto militarmente a qualunque costo. La necessità della supremazia militare degli Stati Uniti – sia essa misurata dalla spesa del Pentagono, dal numero di basi all’estero o dalla propensione all’uso della forza – è diventata un articolo di fede.
Il progetto Costs of War della Brown University ha stimato che le azioni militari statunitensi dall’attacco terroristico dell’11 settembre 2001 in poi sono costate circa 8.000 miliardi di dollari, una somma decine di volte superiore a quella per la tanto sbandierata iniziativa infrastrutturale Building a Better America dell’amministrazione Biden. Ed è difficile capire come i benefici di queste operazioni militari possano aver superato i costi, umani e finanziari, per gli Stati Uniti e per il mondo.
TUTTAVIA, LA LOGICA di base che ha favorito gli interventi in tutto il pianeta rimane intatta. Persino Biden, che da vicepresidente si era opposto all’aumento delle forze statunitensi in Afghanistan e che da presidente ha infine ritirato le truppe, rimane certo dell’efficacia duratura del potere militare americano. La sua risposta alla sconfitta in Afghanistan è stata quella di proporre un aumento della spesa del Pentagono. Il Congresso non solo è stato d’accordo, ma ha aggiunto stanziamenti supplementari. Gli aiuti militari all’Ucraina si moltiplicano come se fossero popcorn. Mai un Paese apparentemente votato a nobili cause ha creato più caos di quanto abbiano fatto gli Stati Uniti dopo la Guerra fredda, mentre si accingevano a colpire gli “stati canaglia” ovunque.
L’elezione di Trump, con le sue bizzarre iniziative come gli incontri con Kim Jong-un e i ripetuti apprezzamenti verso Putin, aveva provocato un esaurimento nervoso all’establishment di politica estera statunitense, un esaurimento da cui non si è ancora ripreso del tutto. A metà del mandato di Biden, la grande strategia statunitense di leadership globale è impantanata in un groviglio di contraddizioni che si rifiuta di analizzare. Tra queste spicca l’insistenza di Washington di tornare di fatto alla guerra fredda con Russia e Cina anche se le risorse disponibili per questa impresa si assottigliano e le prospettive di mantenere il tradizionale posto privilegiato del Paese nell’ordine internazionale si riducono, basti pensare al rifiuto di tre quarti della popolazione mondiale di collaborare alle sanzioni contro la Russia.
EPPURE DOVREBBE essere chiaro che un esercito russo che non riesce nemmeno ad arrivare a Kiev non rappresenta un pericolo per Varsavia, Berlino, Roma o Parigi, tanto meno per New York. Fino ad oggi gli Stati Uniti hanno speso in Ucraina quasi 80 miliardi di dollari che avrebbero potuto essere usati per rallentare il cambiamento climatico, affrontare la crisi dei migranti o migliorare le condizioni della classe operaia americana, tutti compiti vitali anche in vista delle elzioni del 2024, ma che l’amministrazione Biden tratta con molta meno urgenza che armare l’Ucraina.
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