Il dibattito sempre infuocato che si accende sul ponte di Messina copre un ampio ventaglio di criticità che vanno dal rischio sismico all’impatto sull’ambiente marino, dal rischio idrogeologico a quello delle infiltrazioni mafiose e così via. Nulla si dice, però, su un altro impatto, quello sul Green Deal Europeo, che ci impegna a raggiungere la condizione emissioni nette zero nel 2050.

Cosa c’entra il Green Deal col ponte? C’entra, eccome, perché fra le azioni previste per abbattere le emissioni di CO2 il Green Deal esplicitamente include un deciso passaggio del traffico merci dl trasporto su gomma a quello su ferro e marittimo. Cioè: per ridurre le emissioni bisogna usare sempre meno tir, e sempre più treno e nave.

Ma c’è dell’altro, per quanto riguarda i trasporti. Questo altro deriva dal nostro, italiano, Piano per la Transizione Ecologica, approvato l’8 marzo 2022 dal Comitato Interministeriale per la Transizione Ecologica. Questo piano prevede che, affinché l’Italia raggiunga la condizione emissioni nette zero al 2050 occorre, fra l’altro, che il parco autoveicoli si riduca del 60%. Cioè dovranno esserci molto meno auto in circolazione. Insomma il sistema dei trasporti nel 2050, fra meno di 30 anni, dovrà essere caratterizzato da uno spostamento di merci e persone sulle lunghe distanze fatto prevalentemente su ferro o via mare fino a dei nodi, dai quali merci e persone si muoveranno localmente con mezzi leggeri, elettrici. Ma c’è ancora dell’altro. Uno dei principali pilastri su cui si fonda il Green Deal Europeo è l’economia circolare. E su cosa si fonda l’economia circolare?

Contrariamente a quanto parti interessate cercano di farci credere non si fonda sul riciclo, ma sulla minimizzazione della quantità di rifiuti prodotti rifiuti, che naturalmente vanno il più possibile riciclati. Infatti l’economia circolare si basa sul principio secondo cui un prodotto deve essere progettato e realizzato in modo da essere il più possibile durevole, riparabile, riusabile, rigenerabile e – infine – riciclabile.

Questo significa che, dovendo i prodotti durare di più, occorrerà produrne di meno (da qui la riduzione della quantità di rifiuti), e quindi minore sarà il volume di merci che dovrà essere trasportato dal produttore al consumatore. Allora diminuirà il numero di tir che attraverserà lo stretto, diminuirà anche la quantità di merce trasportata sui treni, anche perché prevarrà il trasporto marittimo, più naturale per le isole. Diminuirà enormemente il numero delle automobili, attraverso lo stretto, perché i turisti non arriveranno più in macchina dal nord, ma in treno, e prenderanno l’auto localmente. Tutto questo dovrà avvenire se rispetteremo il Green Deal Europeo.

Proviamo a tirare le somme: fra trent’anni, se non vivremo in un mondo distopico preda di alluvioni, siccità, carenza di cibo, orde di migranti, guerre, saremo invece – lo speriamo e lo vogliamo – in un paese più sostenibile e più giusto, nel quale circoleranno molte meno merci e automobili, con grande vantaggio per la salute e per la qualità della vita.

Una domanda da farsi, allora, è: tanti anni fa, quando il progetto del ponte fu redatto, i conti economici sulla redditività dell’investimento furono fatti sulla base di un aumento del traffico di tir, automobili e treni merci che avrebbero pagato cospicui pedaggi, grazie ai quali il costo dell’opera sarebbe stato giustificato economicamente. Valgono ancora quei conti, se il traffico è destinato a diminuire drasticamente?

Inoltre, come è già stato osservato su questo giornale, è stata valutata la quantità di emissioni incorporate nelle ciclopiche opere in cemento armato che comprendono il ponte e le infrastrutture a monte e valle, considerato che cemento e acciaio sono fra i materiali a più alto impatto sul cambiamento climatico? Ed è stato indicato in che modo queste extra-emissioni verranno compensate?

Evidentemente il governo ritiene che il traffico merci e quello passeggeri aumenteranno, sennò starebbe avviando la costruzione di un’opera non solo inutile ma anche economicamente disastrosa.
Allora, i casi sono due: o al nostro governo è sfuggito che facciamo parte dell’Unione Europea oppure il ponte sullo stretto è un deliberato atto di sabotaggio del Green Deal Europeo, prevedendo che in Italia non sarà realizzato e per questo il ponte serve; e se non si realizza in Italia viene messo in crisi anche a livello europeo, dato il peso che ha il nostro paese.

L’ipotesi che si tratti di un’azione di sabotaggio è rinforzata da tutta una serie di azioni convergenti messe in atto dal governo Meloni e/o dai partiti che lo sostengono. Atti di sabotaggio del Green Deal sono stati il voto contrario, al Parlamento Europeo, alla nuova direttiva sulla efficienza energetica degli edifici, la posizione contraria alla messa al bando delle auto con motore termico nel 2035, l’azione di blocco del regolamento sugli imballaggi, tutti passaggi-chiave per poter raggiungere la condizione emissioni zero nel 2050. Ma il messaggio più forte, a conferma di questa ipotesi, viene dalla decisione di fare dell’Italia l’hub europeo del gas, perché i grandi investimenti necessari si giustificano solo col fallimento del Green Deal. Infatti, se il Green Deal avrà successo il consumo di gas in Europa andrà a sempre più assottigliandosi fino ad azzerarsi nel non lontano 2050, e il nostro meraviglioso hub starebbe lì ad arrugginirsi, vuoto.