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Il Pnrr cancella le coste italiane

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Attenti ai dinosauri La rubrica a cura della Task Force Natura e Lavoro

Pubblicato più di 3 anni faEdizione del 13 maggio 2021

Che quasi la metà delle spiagge italiane sia in erosione e che buona parte delle rimanenti non subisca questo processo solo grazie a orribili e pericolose opere di difesa che vanno mantenute e, spesso, sostituite con strutture meno impattanti, il PNRR sembra non saperlo. E neppure sa che l’erosione continua ad allargarsi alle spiagge non difese, spesso proprio in risposta a queste opere.

Forse lo scoprirà quando avrà sviluppato i sistemi di monitoraggio ambientale (ma i dati di quelli esistenti ci dicono già molto, se vogliamo agire), la digitalizzazione dei parchi naturali (quelli costieri, ovviamente), la mappatura dei fondali marini (se si vorrà risalire fino alla linea di riva). Ma sarà comunque troppo tardi per intervenire!

Le coste sono in erosione da oltre un secolo perché i fiumi non portano più la sabbia al mare, ed è preoccupante che nell’Intervento 3.3 Rinaturazione dell’area del Po si osservi che le escavazioni nel letto del fiume fino agli anni ’70, hanno compromesso parte delle sue caratteristiche e aumentato il rischio idrogeologico e la frammentazione degli habitat naturali, ma si dimentichi di dire che questa è la causa principale dell’erosione che si è già mangiata una bella fetta del delta di questo fiume.

È giusto promuovere interventi strutturali volti a mettere in sicurezza da frane o ridurre il rischio di allagamento … e portare in sicurezza 1,5 milioni di persone oggi a rischio (Investimento 2.1: Misure per la gestione del rischio di alluvione e per la riduzione del rischio idrogeologico), ma questo si tradurrà in una ulteriore erosione delle nostre coste.

È bene incrementare la produzione di energia rinnovabile, ma se questo significa anche realizzare nuovi bacini idroelettrici, tutti i sedimenti grossolani prodotti dall’erosione del suolo a monte della diga, quelli che formano le spiagge, non arriveranno più al mare.

Nel Focus sulle dimensioni trasversali del piano si parla di riforestazione, ma si è tenuto conto che ogni volta che in Italia il bosco è cresciuto si sono persi chilometri quadrati di spiagge? È avvenuto dopo la caduta dell’Impero Romano e dopo la Peste nera del ‘300, quando la riduzione demografica ha determinato l’abbandono delle campagne.

Non dico che tutte queste azioni non siano indispensabili per la ricrescita e il futuro del Paese, ma ogni intervento sul territorio deve tener conto di tutte le sue ricadute e proporre azioni per eliminarle, ridurle o mitigarle.

Per la tutela delle coste si deve avere come riferimento il bilancio sedimentario a scala di bacino idrografico, e risolvere il conflitto d’interessi esistente fra chi vive all’interno, e non vuole frane e alluvioni, e chi vive sulla costa, dove i sedimenti per bilanciare l’azione del mare sono prodotti dalle frane e portati dalle alluvioni.

Anche se si pensasse che le ricadute negative delle azioni positive venissero analizzate in futuro, quando si dovranno progettare e realizzare gli interventi, vi è una carenza di fondo nel PRNN che riguarda le coste, oltre al fatto che non vengono assolutamente prese in considerazione (e quindi di carenza non si potrebbe neppure parlare!).

È che non si considera che tutti gli obiettivi volti a contrastare il cambiamento climatico, e quindi anche l’innalzamento del livello del mare, verranno raggiunti, se andrà bene, fra decine di anni e, comunque, il riscaldamento globale continuerà ancora per molto tempo.

Fino ad oggi l’innalzamento del livello del mare ha contribuito in modo marginale all’erosione delle coste, ma le previsioni sugli scenari futuri ci dicono che gradualmente diventerà la causa principale, come lo è già in alcuni paesi dove questo processo e l’abbassamento del suolo costringono intere popolazioni a migrare all’interno e, talvolta, in altri Paesi.

L’ultimo Rapporto dell’International Pannel for Climate Change (IPCC) prevede, per il 2100, nello scenario più ottimistico un innalzamento di 0.17–0.32 m, mentre nello scenario più pessimistico i valori sono di 0.61–1.10 m, ma si scoprono in continuazione fenomeni, come il rilascio di CO2 dal permafrost o un diverso comportamento dei ghiacci antartici, che portano a pensare che queste stime siano ottimistiche. Il prossimo Rapporto, che comunque continuerà ad essere periodicamente aggiornato, ne renderà conto.

Anche nel caso del raggiungimento degli obiettivi circa la riduzione dell’immissione di gas serra nell’atmosfera, il livello del mare continuerà ad innalzarsi per decenni e nessuna strategia è prevista per difesa, adattamento o arretramento gestito, e tanto meno un’analisi dei tratti su cui applicare le diverse strategie, anche in una loro combinazione che dovrebbe evolversi nel tempo.

La “transizione ambientale” a cui saranno soggetti i territori costieri richiede scelte sostenibili dal punto di vista ambientale, economico, sociale e generazionale, investendo non solo sulle aree da difendere ma forse ancor più su quelle da abbandonare, per le quali si dovranno sviluppare attività che consentano alle popolazioni residenti un pari, se non migliore, livello di vita.

In molti paesi, dall’Irlanda all’Australia, dalla Gran Bretagna agli Stati Uniti, passando dal Giappone, Sud Africa e Cina, ma anche in tanti altri, si fanno piani di Arretramento strategico, per la formulazione dei quali sono necessari specialisti dei diversi settori, nonché la partecipazione di cittadini, non solo informati, ma anche formati.

È un processo lungo e che poteva partire già negli anni ’80, quando il futuro delle coste era già stato tracciato e l’occupazione da parte dell’uomo di tratti vulnerabili era ancora in corso.

Nelle zone scarsamente urbanizzate, l’Arretramento è la soluzione considerata più sostenibile sul lungo termine e l’unica che non impegna le generazioni future. Consiste nello spostare gradualmente tutto l’edificato in aree che i modelli indicano non verranno raggiunte dal mare, neppure nello scenario più pessimistico.

Emblematico è quanto sta avvenendo in Normandia, dove, dopo l’uragano Xyntia (47 morti e 50.000 ettari allagati), lo Stato sta procedendo allo spostamento di quasi 800 case.

Ovviamente deve essere rafforzato il divieto di costruzione lungo le coste e dovranno essere incentivate attività di delocalizzazione, con contributi economici o normativi.

In gran parte del Paese l’intensa urbanizzazione delle coste imporrà soluzioni diverse, quelle che vengono definite di Adattamento. Questo prevede l’adeguamento delle strutture al nuovo quadro ambientale, senza che esse perdano la propria funzionalità. Innalzare il livello del suolo nei centri abitati, le vie di comunicazione e tutte le altre infrastrutture (dighe portuali, sistema fognario, reti di distribuzione, ecc.).

Piani di questo tipo sono in fase avanzata di studio, e per certi aspetti di realizzazione, in alcune città del mondo, come a Boston, Città del Capo e Shanghai.

In Italia si pensa che una simile cura sia necessaria solo per Venezia, il cui valore è inestimabile e che deve certamente avere la priorità, ma non si possono dimenticare le molte Venezie che si stanno formando lungo le nostre coste.

Fra le azioni di adattamento può essere incluso anche il ripascimento artificiale dei litorali, con sedimenti provenienti da cave terrestri o dai fondali marini. Ma quale impatto sul territorio, sul mare, sull’atmosfera comporta il prelievo e il trasporto dei milioni di metri cubi che saranno necessari per fronteggiare l’avanzata del mare?

Oggi viene considerata la soluzione più ‘soft’ per la difesa delle spiagge, ma si basa comunque su di una risorsa limitata e determina un grande impatto ambientale. Il turismo non potrà farne a meno, ma si deve saper il prima possibile dove questa potrà essere garantita per anni, mentre si dovranno identificare le zone dove la spiaggia non sarà più garantita e per le quali si dovranno progettare e sviluppare forme alternative di vivere il mare. Si dovranno anche disincentivare ulteriori investimenti in quei tratti costieri che sappiamo che dovremo abbandonare.

Ma non è colpa del mare se le spiagge spariscono: negli ultimi 18.000 anni è risalito di 130 m e le spiagge sono semplicemente migrate verso l’interno; ovviamente dove noi non lo abbiamo impedito costruendo città, impianti industriali, strade e ferrovie.

Questo ci ha obbligato a adottare la strategia della Difesa, che consiste nel creare barriere rigide (scogliere, dighe, argini) per contenere il mare che avanza o bloccando la poca sabbia in circolazione, impegnando in questo anche le generazioni future, che dovranno rinforzare e rialzare continuamente queste difese, che comunque prima o poi verranno aggirate.

Purtroppo, tale strategia non potrà essere abbandonata laddove vi sono importanti insediamenti, e questo comporterà costi ambientali ed economici oggi inimmaginabili, in particolare se dovremo adottate le tecniche fino ad ora utilizzate. È quindi importante sviluppare la ricerca e favorire la sperimentazione in natura di soluzioni che oggi non vengono neppure studiate, data l’impossibilità di una loro applicazione per la rigidità delle norme e della mentalità di chi dovrebbe autorizzarle.

In un ambiente dinamico come quello costiero, gli interventi dovrebbero accompagnare le variazioni che essi stessi innescano e i progetti dovrebbero avere una grande elasticità nei modi e nei tempi di esecuzione, nonché prevedere fasi di realizzazione che potrebbero svilupparsi su decenni, co-evolvendosi con l’ambiente sul quale si inseriscono.

Teniamo conto del fatto che con il riscaldamento globale stiamo assistendo ad un incremento, in frequenza ed intensità, degli eventi estremi, anche di quelli meteomarini, e l’attacco delle onde alle nostre coste sarà sempre più distruttivo, ed anche le strutture che oggi hanno funzionato, dovranno essere adeguate o riprogettate.

L’innalzamento del livello del mare non pone problemi solo in prossimità della costa, ma avrà ripercussioni che si propagheranno anche all’interno.

Un livello del mare più alto implica una maggiore probabilità di esondazione dei fiumi nelle pianure costiere, alla quale si farà fronte con l’innalzamento degli argini, con il risultato di creare dei fiumi pensili sulle pianure che costituiranno un grave pericolo per le popolazioni residenti; basta tornare con la mente al 1951, all’alluvione del Polesine.

Ciò richiederà anche l’innalzamento dei ponti, per garantire il deflusso delle piene eccezionali, e di tutto quanto ad essi si raccorda (tracciati stradali e ferroviari, condotte, ecc.). Tutti i sistemi di bonifica andranno rivisti, per evitare che i canali portino all’interno l’acqua salata e non fuori quella dolce.

Sarebbe l’occasione per un grande intervento di restauro del territorio, con lo spostamento delle popolazioni in aree più sicure e una utilizzazione dei vari ambienti in funzione delle proprie vocazioni e non, come ora, quale risultato di una secolare crescita scoordinata ed utilitaristica.

È un lavoro che deve partire il prima possibile, non solo perché ora ci sono delle risorse, ma anche perché i suoi costi cresceranno in continuazione fino a che non verrà raggiunto un assetto (mai un equilibrio) più sostenibile.

Si tratta di grandi interventi, ma anche di piccole opere diluite nel tempo, che potrebbero garantire un lavoro continuo e diffuso su tutto il territorio nazionale.

Il PNRR non tiene assolutamente conto di tutto questo. Non ci aspettavamo soluzioni e progetti, ma almeno la presa di coscienza dell’esistenza di un problema che, forse, sarà uno di quelli centrali nei prossimi decenni.

Come è previsto un Intervento specifico per il Po, indispensabile ne sarebbe stato anche uno per le coste, che sono ben più lunghe del più lungo fiume d’Italia: 7466 km contro 652!

Enzo Pranzini è Docente climatologia e difesa dei litorali; è stato Presidente Gruppo nazionale ricerca sull’ambiente costiero

 

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