Politica

Il Partito-Paese, e le riserve inesplorate del genoma Gramsci

Il Partito-Paese, e le riserve inesplorate del genoma GramsciBanchetto. – Archivio

Profondo rosso Non è vero che poi tutto è finito in nulla: senza quella soggettività che produceva quell’impegno, non si sarebbero ottenute dall’opposizione le migliori riforme conquistate nel nostro paese

Pubblicato quasi 4 anni faEdizione del 21 gennaio 2021

Mi chiedo: ma c’è in Italia un altro partito oltre al Pci che per un suo anniversario – 100 anni certo è un secolo, ma anche 50 o 20 sono di solito occasione di celebrazione – sia mai stato ricordato così coralmente da tutti i possibili media: tv, radio, quotidiani, settimanali, riviste, e non solo italiane viste le interviste richieste dall’estero; e poi istituti storici e non storici, circoli, reti, centri, e non so quant’altro? Già questo mi pare basti a dire molto su questo partito, non c’è bisogno di saggi di esperti.

La migliore fra le succinte spiegazioni che del fenomeno è stata data resta per me quella che, dopo aver indagato nel nostro paese di cui era molto curioso, ebbe a dare Jan Paul Sartre: «Adesso ho capito – disse – il Pci è l’Italia!». Voleva dire che questo partito non era una avanguardia separata, ma un corpo impastato con lo stesso sangue, le stesse emozioni, comportamenti, ricordi, del popolo italiano. Non un organismo estraneo.

Non però, intendiamoci, il «popolo» di per sé – come piacerebbe a quelli, non pochi, che negli ultimi anni si sono innamorati di un c.d. «populismo di sinistra». Perché quella coincidenza fra paese e partito, non era stabilita a partire dal nome di un leader cui ci si affida, ma, tutt’al contrario, di un partito militante, e dunque un organismo collettivo che quel popolo aveva aiutato a trasformarsi da suddito a cittadino, a soggetto orgoglioso del suo ruolo, perché si sentiva parte di un grande movimento che stava trasformando il mondo.

Non sono parole, badate. Se ripenso a questo partito nella mia città, Roma, e parlo dunque a partire da un’esperienza reale e non per indottrinamento, ricordo tutt’ora con emozione quel sottoproletariato borgataro che via via imparava a farsi valere, diventava cosciente. E fiero. Ma, del resto, se ripensate a tanti scritti di Pasolini, o ai film neorealisti dell’inizio degli anni ’50, o, ancora, alle pieces di Ascanio Celestini, non trovate forse sempre uno di questi/e popolane alle prese con la miseria, che tiene riposta fra le proprie cose preziose la tessera del Pci? E fra loro, tante donne.

Per questo quel partito raggiunse una cifra di iscritti – 2 milioni – unica in Occidente, per questo seppe reggere alle intimidazioni, discriminazioni, scomuniche, repressione che caratterizzarono la bieca stagione della guerra fredda.

Sono state illusioni? Erano speranze che si cercava di tradurre in realtà, e non è vero che, ahimè, poi tutto è finito in nulla: senza quella soggettività che produceva quell’impegno non si sarebbero ottenute, pur dall’opposizione, tutte le migliori riforme conquistate nel nostro paese.
Ed è per questo che quando mi chiedono perché, a 100 anni dalla nascita del Pci, mi dico ancora comunista, rispondo: innanzitutto per via della storia dei comunisti italiani, entro cui metto naturalmente anche i comunisti del Manifesto e del Pdup, che ne hanno costituito un arricchimento.

Nonostante errori anche gravi, sono stati i soli che hanno cercato di avviare quel lungo processo che avrebbe potuto portare anche in Occidente alla costruzione di una società alternativa.

Non ci siamo riusciti, la sinistra è oggi in Italia in condizione desolante, lo so. La più grave: celebriamo 100 anni della nascita di un partito che è morto già da 30.La prima cosa che dunque in questo centenario dovremmo fare è impegnarci a condurre quella riflessione critica collettiva (per evitare autoindulgenze) sempre annunciata e poi mai fatta davvero.

Non comincerò certo con un articolo di quotidiano, ovviamente. Poiché, come era naturale, questa celebrazione ha però riproposto l’interrogativo di sempre – cosa è ancora valido della esperienza del Pci – anche io, come tutti, mi sento obbligata a dare una risposta ai ragazzi che, pur perlopiù consapevoli dell’importanza storica di questo partito, pensano non abbia più niente di utile da insegnarci. Anche per dare questa risposta servirebbe in realtà una riflessione approfondita ma una cosa a me pare possa esser detta senza rischio di sbagliare: mettete finalmente, pienamente a frutto il «genoma Gramsci» che finora ci ha protetto ma ha ancora riserve inesplorate da sfruttare.

Soprattutto su due questioni. La prima, la sua idea di partito, l’ipotesi che finalmente consentirebbe di superare la diatriba fra chi sostiene la necessità di farne lo strumento che, dall’esterno, porta la coscienza, e chi vuole invece affidarsi alla spontaneità del movimento. E cioè l’idea gramsciana del partito come «intellettuale collettivo», impegnato a ridurre via via la distanza fra dirigenti e diretti, e che la coscienza la costruisce insieme. Se gli iscritti al Pci sono così a lungo stati partecipi in prima persona della vita politica del nostro paese è perché, almeno in parte, e pur nelle condizioni primitive del dopoguerra, su questo progetto si è lavorato.

E serve ancora Gramsci per quanto egli stesso, e con lui tutto il gruppo giovanissimo dell’Ordine Nuovo, portarono avanti nella pratica concreta della Torino operaia del primo dopoguerra, dove cercarono di sperimentare le ipotesi consiliari che non erano state solo teorizzate da correnti minoritarie del movimento operaio, ma da Lenin stesso (per esempio in Stato e Rivoluzione). Costruire cioè, accanto ad altre forme organizzate di democrazia – oggi diremmo il modello di democrazia rappresentativa – forme di democrazia diretta, espresse dai movimenti di lotta che però si consolidano e si propongono di assumere anche la gestione diretta di pezzi della società, così via via riappropriandosi di un potere – per dirla con Lenin – «espropriato dallo Stato». Sì da costruire gli strumenti per ridurre l’autoreferenzialismo dei partiti, e l’arroganza dello Stato.

Negli straordinari primi anni del ’70, con i Consigli di fabbrica e poi di zona, è proprio questa ipotesi che fu riproposta nelle fabbriche dove la lotta aveva dato vita e vere forme di potere. Esperienze che purtroppo il Pci non capì e depotenziò, come del resto tutto fece con il ’68. Oggi quelle fabbriche non ci sono quasi più, ma ancor più feconda potrebbe essere questa ipotesi in rapporto a territori dove si intrecciano soggetti sociali frantumati e diversi, espressione di contraddizioni non omogenee. I consigli potrebbero essere organismi riunificanti, forme di organizzazione in qualche modo simili al «sindacato di strada» di cui Maurizio Landini ha parlato nel suo primo discorso da segretario generale della Cgil.

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