Il parlamento europeo vota contro l’Ungheria
Ue No allo sblocco dei fondi, al centro della risoluzione non vincolante lo stato di diritto
Ue No allo sblocco dei fondi, al centro della risoluzione non vincolante lo stato di diritto
Il Parlamento europeo sferra l’ennesimo attacco contro il primo ministro ungherese, Viktor Orbán, per aver posto il veto al vertice di dicembre sul pacchetto di aiuti a sostegno dell’Ucraina «in pieno disprezzo e in violazione degli interessi strategici dell’Ue». Ma questa volta a finire sul banco degli imputati è anche la Commissione europea, rea di aver ceduto ai ricatti del leader sovranista, con la decisione di sbloccare 10,2 miliardi di euro di fondi europei proprio alla vigilia del summit. La mossa di Palazzo Berlaymont aveva suscitato un vespaio di polemiche perché letta come un tentativo di piegare l’opposizione di Orbán sul dossier ucraino al centro del summit di dicembre.
Tentativo, per inciso, riuscito solo a metà. Orbán ha sì ceduto sul lato simbolico del dossier ucraino, l’avvio dei negoziati di adesione all’Ue, ma continua a tenerne in ostaggio il lato tangibile, quel pacchetto di aiuti da 50 miliardi di euro, reso ancor più urgente dalla mancata approvazione del sostegno finanziario di Washington. «Se vogliamo aiutare l’Ucraina, facciamolo al di fuori del bilancio dell’Ue e su base annuale: questa è l’unica posizione democratica a soli 5 mesi dalle elezioni» è tornato a ribadire ieri Orbán.
L’ACCUSA era stata prontamente respinta dalla presidente della Commissione, Ursula von der Leyen, che nel dibattito in aula di mercoledì a Strasburgo, ha difeso la scelta dell’esecutivo, dettata, a suo dire, dall’approvazione da parte di Budapest della riforma della giustizia con i rilievi mossi di Bruxelles. «È ciò che abbiamo chiesto e l’Ungheria lo ha fatto» ha scandito von der Leyen, ricordando che restano congelati circa 20 miliardi di euro. «Sono stati sospesi per motivi che includono preoccupazioni per i diritti Lgbtiq, la libertà accademica e il diritto di asilo. E resteranno congelati – ha promesso – finché non saranno soddisfatte le richieste».
GLI EUROPARLAMENTARI non sembrano pensarla allo stesso modo però. Nella risoluzione sull’Ungheria, adottata dalla plenaria a larga maggioranza, si sostiene che le misure adottate dal governo Orbán continuano a non dare «sufficienti garanzie contro l’influenza politica» e possono essere «aggirate o non adeguatamente applicate».
Ma c’è dell’altro: il Parlamento fa un passo ulteriore, minacciando azioni legali contro la Commissione davanti alla Corte di Giustizia dell’Ue. A votare a favore del testo, la maggioranza Ursula, con i popolari (quindi Forza Italia), i socialisti e i liberali di Renew, con l’aggiunta di Verdi, Sinistra e la delegazione M5S. Contrari, ça va sans dire, gli eurodeputati presenti di Fdi e Lega, che hanno votato in linea con i gruppi di appartenenza, il gruppo dei Conservatori e dei Riformisti Europei (Ecr), e Identità e Democrazia (Id). E questo nonostante la risoluzione del Parlamento rischi di essere in realtà più uno strumento di pressione (o di campagna elettorale) che non un vero e proprio attacco frontale a Orbán e soprattutto alla Commissione.
E QUESTO PER DIVERSI motivi, tra cui la tempistica: difficile immaginare che la Corte di giustizia dell’Ue possa esprimersi su questa decisione con l’esecutivo von der Leyen ancora in funzione, visto l’approssimarsi delle europee. E infine, la bomba atomica, ossia la procedura prevista all’articolo 7 del Trattato dell’Ue che prevede la sospensione dei diritti di adesione di uno Stato membro, incluso il diritto di voto in seno al Consiglio, qualora vi siano «gravi e persistenti violazioni» dei principi su cui si fonda l’Ue. Anche su questo punto il Parlamento europeo ha glissato, facendo sì un riferimento alla procedura, ma limitandosi a chiedere al Consiglio europeo di valutare se vi siano i presupposti per agire in questa direzione. Un testo annacquato rispetto alle crociate promesse nei giorni scorsi, ad indicare anche la scarsa possibilità di privare Budapest del suo diritto di voto che incontra diverse resistenze tra gli Stati membri. E questo, nonostante i malumori creati dal despota dell’Est.
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