Il palio delle guerre civili nel mondo
Crisi internazionale Doveva scoppiare in Russia, poi è esplosa la crisi francese. Mentre resta strisciante in tante realtà del mondo. Dove emerge il fronte sociale interno, la lotta di classe inevasa
Crisi internazionale Doveva scoppiare in Russia, poi è esplosa la crisi francese. Mentre resta strisciante in tante realtà del mondo. Dove emerge il fronte sociale interno, la lotta di classe inevasa
Chi vincerà il “palio” delle guerre civili nel mondo? Perché tutti aspettavano la guerra civile in Russia e invece ora tutti guardano tesi gli avvenimenti da guerra civile in Francia con la rivolta delle banlieue per l’uccisione del giovane Nahel, con altre quattro vittime, un’estensione della protesta in tutta la Francia e una repressione presidenziale – l’unica, violenta forma di sopravvivenza di Macron – che è arrivata a più 4mila arresti e all’istituzione di sbrigativi processi per direttissima. Mentre ora, scendono in piazza le ronde dichiaratamente fasciste contro «gli stranieri» e la società francese appare sempre più dilaniata: la colletta per la famiglia della vittima arriva a 200mila euro, quella per il poliziotto che ha ucciso Nahel supera il milione.
COMUNQUE FINIRÀ, il primo messaggio che arriva è che le guerre civili interrotte dalla repressione, poliziesca o militare che sia, sembrano appuntamenti solo rimandati. Vale anche per gli Stati uniti, che ora alle prese con i processi intentati a Trump, si trovano di fronte l’irrisolta immagine dell’assalto al Campidoglio del 6 gennaio 2021 quando sostenitori dell’ex presidente e milizie a lui ispirate irruppero manu militari nel sancta sanctorum della democrazia americana, dove una litania di uccisioni e mass shooting con decine di migliaia di morti l’anno testimoniano di un fronte interno sociale devastato.
VALE NATURALMENTE per la Russia di Putin che, per la guerra d’aggressione che ha provocato, ha avuto bisogno di privatizzare la forza con un corpo mercenario che ha sostenuto le battaglie più importanti, fino alla ribellione della Wagner guidata dall’ex fido Prigozhin. Anche questo – i mercenari più impegnati in combattimento, con più vittime degli eserciti regolari – è nella tradizione delle guerre occidentali degli ultimi 30 anni, per la difficoltà di motivare fino in fondo le «ragioni» della guerra: con la Black Water e altre formazioni mercenarie in Iraq e Afghanistan, con lo sviluppo e ruolo di questa «necessaria» e ingombrante presenza.
E VALE ANCHE per la stessa Ucraina che, nell’ultima fase della guerra civile interna dal 2014 al 2022, ha incorporato formazioni militari irregolari (Battaglione Azov, Pravy Sector e altri) nelle forze armate, realtà che spesso hanno la stessa estrazione identitaria, neofascista e ipernazionalista delle formazioni mercenaria del nemico russo; e vale per Israele dove Netanyahu per restare al potere, di fronte ad una società israeliana spaccata sulle sue scelte autoritarie e invece unita nell’occupazione militare dei Territori palestinesi, ha concesso all’estremista suprematista Ben Gvir, diventato ministro della Sicurezza nazionale, la costituzione di un pericoloso corpo armato separato, la Guardia nazionale.
ECCO DUNQUE CHE la guerra civile, più o meno latente, torna con evidenza a proporsi come uno degli elementi della crisi contemporanea. Ed obbliga ad una riflessione di fondo. Quello che viene definito come il «dominio» mondiale dopo l’implosione dell’Urss, mostra una sua gigantesca fragilità nel campo sia alleato che nemico.
Così la vera strategia geopolitica in campo resta quella di destabilizzare l’avversario, fino all’esplosione di una guerra interna all’«altro». Madeleine Albright, segretario di Stato Usa, minacciava l’ex Jugoslavia di Milosevic di «sfogliare una ad una le margherite», le contraddizioni etniche e storiche della Serbia, se non avesse accettato le imposizioni di Rambouillet, prima di scatenare la guerra di bombardamenti aerei «umanitari» della Nato nel marzo 1999. E così sembra riproporsi ora la partita, come se fosse possibile un paragone tra la piccola e marginale Serbia e la Russia potenza atomica.
Sempre, naturalmente, pronti alla missione «civilizzatrice» di una alleanza militare occidentale: come in Somalia nel 1993 che doveva “Restore hope”, ridare speranza, e che invece vive ancora nella condizione di una guerra civile strisciante – domenica scorsa per l’eccidio del Check Point Pasta del ’93 sono stati ricordate le nostre vittime militari, ma nemmeno una parola per le decine e decine di vittime civili da noi provocate.
CHE DIRE POI DEL DISASTRO libico dove l’intervento della Nato, in primis della Francia, insieme alla morte di Gheddafi ha provocato una frammentazione della Libia stessa contesa in una guerra civile da due eserciti e da centinaia di milizie armate, dietro cui si nascondono nuovi governi inventati, nuovi alleati e nemici potenti; per non tacere del disastro provocato in Siria, una destabilizzazione non riuscita ma che ha fatto terra bruciata di un Paese. Dunque la guerra civile è l’occasione per ogni intervento militare esterno. Ma emerge un’altra questione che sposta il discorso dall’inflazionata geopolitica alla dinamica sociale e politica. Ne sanno qualcosa milioni e milioni di spostati sociali, donne e uomini in fuga da miseria, carestia, conflitti per procura, devastazioni ambientali e crisi climatiche, che chiamiamo «migranti».
LE DIFFERENTI FORME di guerra civile che ci troviamo di fronte propongono infatti l’attenzione sul fronte interno, sul conflitto sociale inevaso in ogni realtà nazionale. Vale per Putin che, per proseguire nella sua guerra suicida per il popolo russo, è costretto a mobilitare sempre più diseredati dalle periferie della Federazione russa; vale per l’Ucraina dove in otto anni di guerra civile che hanno preparato la tragedia che abbiamo sotto gli occhi ben pochi si sono accorti del fatto che nelle trincee del Donbass c’erano, e ci sono ancora, lavoratori contro lavoratori, spesso gli ultimi, le facce nere dei minatori ridotti alla fame ma armati ed aizzati dai rispettivi oligarchi.
E VALE PER GLI STATI UNITI, dove un’analisi e un coinvolgimento alternativo tarda a venire di quella «pancia profonda» di settori popolari di emarginati e poveri, diventati massa di manovra del nuovo suprematismo americano e della destra repubblicana. Anche noi dovremmo spostare l’attenzione dalla sola geopolitica alla lotta di classe: la guerra è sempre più, come dimostra l’Italia meloniana e l’Ue che riarma, un esplosivo blocco sociale d’interessi.
Per dirla con Marx, dietro le guerre del capitale si muove un’altra guerra civile: quella di un movimento reale di individui al lavoro, in punti opposti del mercato mondiale che, in rapporto di tensione con il potere che li connette, determinano nuove condizioni di possibilità per l’emancipazione.
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